Sorellanza: solidarietà politica tra donne

Riceviamo e pubblichiamo la traduzione in italiano del quarto capitolo Sorellanza: solidarietà politica tra donne che trovate qui sotto in formato pdf dell’autrice Bell Hooks tratto dal libro Femminist Theory: From Margin to Center

Qui sotto trovate il link del capitolo in lingua originale:

http://www.jstor.org/stable/1394725?seq=1#metadata_info_tab_contents

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Basta terricidio! Camminiamo insieme per proteggere la vita sulla terra

Riceviamo e pubblichiamo

Lottiamo insieme camminando contro il terricidio! Programma completo e volantino con la splendida immagine di Mariana Chiesa Mateos. Due giorni di cammino, cibo, informazione, canto, convivialità e arte. Unitevi a noi e diffondete!

 

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Dove vanno a morire le vecchie lesbiche

Riceviamo e pubblichiamo la traduzione di un testo dal giornale indipendente egiziano Mada Masr
Link del testo originale in lingua inglese:
https://www.madamasr.com/en/2020/02/17/opinion/u/where-do-old-lesbians-go-to-die/

Dove andiamo a morire, quando abbiamo vissuto migliaia di vite in un mondo che non è stato fatto per noi? Dove andiamo a morire, quando non siamo mai state qui? 

Mentre compio quarant’anni mi ritrovo a chiedermi cosa significhi invecchiare e cosa significhi morire. Vedo altre persone che invecchiano, le loro vite che si spostano per accogliere coniugi, figli, feste di compleanno, suoceri, incontri genitori-insegnanti, pettegolezzi coniugali, relazioni e divorzi che coinvolgono amici e famiglie. Senza queste tappe obbligatorie l’unica metrica che posso prendere in prestito da quel mondo che non ci voleva, è che quello che ho avuto è più lungo di quello che resta. Questa metrica, applicata alla mia vita, si traduce in: Ho amato più donne di quante me ne siano rimaste da amare. Ho conosciuto più passioni e strazi di quanti ne scoprirò nel tempo che mi resta. Ho combattuto più lotte per affermare la mia esistenza di quante ne rimangano da combattere. 

Ho combattuto per tutto il tempo che posso ricordare: Combattendo il mondo che non mi vuole, combattendo la mia famiglia che non mi vuole vedere, combattendo la nozione di un dio il cui trono trema di rabbia quando amo, e combattendo un io che non cede per rendere tutto più facile. Ho combattuto ad alta voce e combattuto ancora più forte nella mia testa, quando le parole si rifiutavano di lasciare la mia bocca. Le mie labbra si chiudono, per preservare la mia vita. Le mie parti del corpo che mi sfidano, per il bene dell’imperativo biologico di vivere. Troveremo la pace nei momenti della nostra morte o lotteremo ancora per affermare la nostra esistenza?

Ad ogni confronto con questo mondo che non ci lascia essere, i contorni di ciò che siamo si riorganizzano per cercare di preservare il più possibile di noi e tenerci ancora in vita. La lotta è primordiale, è giovane, come un bambino che sta imparando a dire “io”, che “io” è separato dal genitore, che lui stesso è un individuo con desideri, esigenze e desideri propri. Come possiamo invecchiare quando il mondo in cui viviamo non ha mai smesso di fare figli di noi più e più volte?

Non conosco nessuna vecchia lesbica, tranne una nella mia famiglia che nessuno dice che lo sia. Passa le sue giornate da sola, bevendo, inciampando fuori da casa sua nelle strade spietate del Cairo. Quando viene rimproverata per i suoi capelli corti e il suo abbigliamento maschile, le sue labbra – a differenza delle mie – erose dalle parole che hanno trattenuto e consumate dall’alcol egiziano a buon mercato che beve, non la preservano. Il tempo si è fermato e gli ultimi due decenni sono stati un disco rotto che incrina un’altra parte del suo corpo, il naso, le braccia e gli stinchi, ad ogni oscillazione, ad ogni confronto. Due decenni fa, la sua migliore amica, che ha vissuto con lei per tre decenni, se n’è andata. La nostra famiglia l’ha consolata di più quando ha perso un cane. Come invecchiare quando il tempo si ferma e gli unici spazi in cui esistiamo sono le nostre immaginazioni?  

Diamo l’addio ai nostri consanguinei presto, non appena intravediamo i primi segni di ciò che siamo. Li perdiamo lentamente, li guardiamo impotenti, arrabbiati perché non c’è scelta che possiamo fare, mentre si allontanano da noi. Se scegliamo di condividere noi stessi con loro, li perdiamo e loro perdono noi. Se scegliamo di non condividere noi stessi, li perdiamo, mentre loro rimangono ancora, mentre noi rimaniamo ancora per loro. Esistiamo intorno a loro, vescicole vuote, manovrando i nostri corpi mentre passiamo il sale sul tavolo. Lo stesso sale che hanno sparso negli angoli delle loro case per proteggerli dai demoni. I demoni che senza dubbio crederebbero che incarniamo se avessero intravisto chi siamo e come viviamo. Ho sentito voci di vecchie compagne lesbiche, una delle quali se n’è andata di recente. Non la conoscevo. Ho visto la morte arrivare per lei, il mondo che celebrava ogni parte di lei, tranne come il suo cuore si ribellava a tutto ciò per cui gli veniva detto di battere, per cui non poteva fare a meno di battere. Chi ci piangerà per come eravamo, quando non siamo mai state?

Dicono che la perdita fa invecchiare e noi abbiamo perso così tanto. Le nostre perdite trascendono la nostra biologia e ne perdiamo troppe prima che le porte delle loro tombe siano chiuse. Dicono che la perdita ci rende resilienti e pieni di risorse. Costruiamo con risorse i nostri parenti scelti, dove la capacità di conoscerci e di vederci come siamo è più spessa del sangue. Forse ci siamo abituati ai finali bruschi e alle separazioni vaganti a causa della Prima Perdita. Da allora abbiamo sperimentato vite di famiglie scelte che svaniscono; poi le abbiamo rimpiazzate con resilienza e risorse, più e più volte. Come possiamo invecchiare quando siamo più vecchi delle nostre vite due e tre volte, quando non siamo mai stati giovani? 

Come possiamo descrivere la natura di come desideriamo, ci colleghiamo e cerchiamo di costruire vite di partnership con la parola amore, quando questa parola non è mai stata pensata per descriverci? La nostra esistenza quotidiana è inondata dall’immaginario e dalle pratiche delle relazioni umane normative, che ci ricordano quanto ci siamo allontanati da tutto ciò che era stato pianificato per noi prima ancora che fossimo qui. Cosa significa amare quando niente intorno a te chiama amore ciò che senti? Quali parole dovremmo usare per descrivere l’amore, quando amare e lottare per essere sono sinonimi? La ribellione appartiene ai giovani e io non avrei mai potuto immaginare la mia vita al di là di quello che ero. Quando ho iniziato a vedermi, per metà speravo e mi aspettavo di superare me stessa, trovare un coniuge adatto, avere dei figli, dare ai miei genitori dei nipoti, crescerli e più tardi vedere i miei propri nipoti, ma invece sono rimasta fermamente ancorata alla mia giovinezza mentre continuo a ribellarmi. Come si può invecchiare quando esistere significa aggrapparsi strettamente a ciò che appartiene ai giovani? 

Ho solo un riferimento su come invecchiare: una squallida scala lineare, confrontando ciò che è stato vissuto, deducendo ciò che resta da vivere. La scala è un parametro privo di comunanze celebrative, come i matrimoni, le nascite, o il semplice atto di vedere la nostra stessa prole ripetere queste pietre miliari. Quando festeggiamo, o lo facciamo in segreto, o abbiamo nascosto parti di noi stessi, in cambio di uno spazio in questo mondo, anche quando si adatta in modo goffo e scomodo. Le cuciture che ci tengono insieme si allungano e i nostri vestiti che non ci stanno bene si stropicciano, ma quando la macchina fotografica si sposta per la foto di famiglia, i difetti dei nostri abiti sono nascosti dall’illuminazione esperta e dai corpi in scena della famiglia che ci circonda. Se i nostri abiti rimangono sgraziati, saremo tagliati fuori dalla foto. Racconteranno parti della nostra storia e lasceranno convenientemente fuori le parti che costituiscono chi eravamo veramente. Così come il mondo non ha avuto spazio per noi così come siamo, il passare del tempo non è stato in grado di lasciare che le nostre storie plasmassero il significato del suo passaggio. Restiamo allo stesso tempo confinati e liberati, diaspore di esuli materiali e immaginari. Non invecchiamo, né siamo mai state giovani. Non andiamo da nessuna parte, perché non siamo mai state qui.

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Protezione, assedio e fuga : cosa ha fatto il mio corpo

*Questa immagine è della pittrice egiziana Shalabiya Ibrahim

Pubblichiamo la traduzione del testo di una compagna egiziana che fa un’analisi a dieci anni dalla rivoluzione.

Qua sotto il testo tradotto in inglese:

https://www.madamasr.com/en/2021/02/11/opinion/u/protection-siege-and-escape-what-my-body-has-done/

Qua sotto il testo originale in lingua araba:

كيف فعلتها يا جسدي| 10 سنوات في محاولة الخروج

(1)

Il mio corpo ha creato una dinamica particolare con la società intorno a me. E’ il muro alto dietro cui mi sono nascosta, e attraverso differenti periodi della mia vita sono stata grata per questo, per tutti i colpi che ha ricevuto al posto del mio cuore e della mia mente. Da quando ero piccola, la gente pensava che facessi sport violenti  e dosava ogni parola che mi rivolgeva. Il mio corpo creava la distanza di cui avevo bisogno per proteggere me stessa e chiunque mi fosse vicino. Questa era una comodità per le mie amiche, e suscitava invidia e bullismo occasionale nei giovani maschi. Feci un vero sforzo per imparare a fare sport violenti e soddisfare le aspettative degli altri. Man mano che la ragazza in me iniziava a sviluppare forme identificabili come femminili,  aveva bisogno di difendersi sempre di più in un corpo che era provocante e disorientante per chi non riusciva automaticamente ad assegnargli un genere. 

A volte, l’immagine che hai di te stessa è l’esatto opposto dell’immagine che gli altri hanno di te. Alla fine rinunciai a imparare sport violenti da adolescente, quando realizzai che semplicemente non mi piacevano. Nella mia gioventù ci fu un interesse crescente per il wrestling, ma non riuscivo a condividerlo, chiudevo gli occhi durante le scene violente nei film.

La mia mente scoprì la magia della lettura e il brivido della scrittura, del teatro e del cinema. Il mio cuore vinse questo round. Leggevo avidamente e scrivevo alle superiori mentre il mio corpo continuava a trasmettere il messaggio al mondo che ero capace di aggredire, quindi faresti bene a stare attento. Ci sono profonde perdite che scaturiscono dalla tua mente che si muove in una direzione mentre il tuo corpo si muove in quella opposta. Mi persi annegando nello stereotipo a cui il  mio corpo invitava; lo feci perché pensavo che fosse più sicuro.

A un certo punto realizzai lo stato di assedio in cui stavo vivendo, semplicemente vivendo qui, ma anche l’assedio che avevo imposto al mio corpo plasmandolo a un personaggio che non avevo scelto. Questo personaggio era intrappolato nell’elogio costante che riceveva da familiari e conoscenti: una donna vale cento uomini. La nostra società ama comparare le donne agli uomini come se fosse una celebrazione, ma quello che viene celebrato è il potere che la società dà agli uomini. Col tempo la mia consapevolezza crebbe, e così fece la mia lingua tagliente quando contrastavo l’attacco dei  “cento uomini” ogni volta che veniva menzionato. Ma l’assedio continuò in molti, molti modi.

La  mia voce era un perenne campo di battaglia negli anni della mia adolescenza. Quando crebbi il suo tono diventò rauco. Non mi ero resa conto del cambiamento. Vivevo nella spontaneità di un corpo che stava crescendo sempre di più e una voce che si espandeva con una fastidiosa eco. Ma disturbava i miei genitori, che pensavano fosse inadeguata per una ragazza. Dovettero consultare scienziati e specialisti. Mi trascinarono dal dottore che, dopo aver esaminato le mie corde vocali, disse fermamente a mia madre: ” Non ha problemi medici, questa è semplicemente la voce che ha, non è necessariamente una brutta cosa,” Mia madre era imbarazzata mentre cercava di formulare la domanda successiva. Il dottore la anticipò argutamente: “Molte ragazze e donne hanno voci più profonde, e alcune sono anche cantanti!” La visita a quel dottore diventò un aneddoto familiare e decisi di cantare su prescrizione medica, anche se solo per le persone amate. 

La mia voce era un campo di battaglia atavico. Alle superiori decisi che volevo scrivere e lavorai nella radio e nel giornalismo della scuola. Preparavamo le notizie del mattino, per farle leggere a qualcun’altra, qualcuna con una voce più femminile della mia. La mia voce mi coinvolgeva in situazioni quotidiane: casuali conversazioni di corridoio con i miei colleghi – che fossero serie o divertenti – avrebbero sollevato un polverone. Le professoresse odiavano il modo in cui mi esprimevo e commentavano aspramente e aggressivamente con autorità materna legittimata.

Ma i professori erano divisi in due schieramenti, uno non sopportava che la tonalità della voce di una studentessa fosse più profonda e più forte della loro. L’altro schieramento controllava tutto quello che facevo in classe e fuori. Ero soggetta a un comportamento vendicativo di uno di loro: era un professore biondo, si vantava perché aveva la pelle più “chiara”, aveva un fisico abbastanza grosso con dei baffi biondi prominenti e una faccia oltremodo arrossata. Gli studenti temevano la sua voce, e quindi era responsabile della sicurezza a scuola e della mensa. Rincorreva le studentesse con un lungo bastone, di almeno mezzo metro, lo usava per colpire i loro corpi quando riusciva a raggiungerle mentre fuggivano da lui nel cortile dopo l’intervallo. Noi eravamo un gruppo di studenti che riuscivano a sfuggire a questo trattamento perché l’amministrazione sapeva che lavoravamo nel teatro e nel giornalismo e rappresentavamo la scuola nelle competizioni. Ci dava potere, barattavamo lavoro duro con momenti di misfatti.
Questo professore era un molestatore patriarcale che godeva dell’autorità senza limiti: autorità che non aveva sulla materia che si supponeva dovesse insegnare. La nostra relazione era silenziosa e resse finché trovò una falla: il mio contributo all’edizione di una rivista sulla Guerra del Golfo del 1998. L’uscita si chiamava “La voce delle studentesse” . Lo comunicò alla direzione scolastica e mi rinchiuse per un po’ di tempo nella “cantina della scuola. Da solo, raccolse tutte le copie di questa rivista alle studenti. Passarono ore prima che lasciassi finalmente la mensa dopo che alcune ragazze erano riuscite a nascondere qualche copia, e dopo che l’amministrazione aveva rifiutato la sua richiesta di espellermi, per motivi burocratici, alla fine della giornata. Dopo, nell’arco di tre anni, scoprimmo che aveva molestato tante studentesse, ma nessuna si sentiva di sporgere denuncia contro l’insegnante responsabile della sicurezza. L’amministrazione della scuola – costituita principalmente da donne – lo vedeva come il pastore che si prende cura del gregge.

Arrivai a odiare la mia voce e i problemi che mi causava. Questo mostro doveva essere contenuto perché la mia vita potesse migliorare, e le noie potessero finire. Ci provai per un po’ di giorni e poi me ne dimenticai. La mia tonalità aumentava con l’entusiasmo e la rabbia e continuai a sentire gli stessi commenti odiosi. La smisi di provare a cambiare quello che non volevo cambiare! Pagai un prezzo alto per aver preso quella strada e finalmente smisi di provare per sempre all’università quando scoprii la possibilità di lanciare slogan nelle proteste.

Lanciare slogan politici mi ha portato alla rivelazione che la mia voce non veniva dalla mia gola, ma piuttosto dal mio sentire, dalle parole che scaldano i cuori e infuocano gli animi. In pochi secondi, si stese un ponte e un processo di riconciliazione iniziò. C’erano più uomini che donne alla maggior parte delle proteste, e cantavano i cori più interessanti e orecchiabili. Erano pronti, portati sulle spalle, sopra le masse di teste umane, come i maestri di Sufi, e le ondate di giovani che desideravano un ruolo di spicco nel canto comune sarebbero corse in avanti verso di loro. I contributi delle donne erano scarsi fin a quando la mia generazione – pronta alla competizione – apparve. Donne che urlavano slogan e canti. Tra loro, la mia voce era pronta a elevarsi e quando lo faceva, mi trovai improvvisamente in un momento di celebrazione personale.

Il mio piacere ritrovato fu comunque rovinato dai partiti islamisti – Fratelli Musulmani inclusi, se gli capitava di unirsi a una protesta a cui partecipavo prima della rivoluzione- che rifiutavano di cantare dietro una donna. Ogni volta che alzavo la mia voce, il loro improvviso silenzio cercava di sconfiggermi. Il loro rifiuto era seguito dal suono di un uomo che cantava per guidare la sua gente e le loro voci si alzavano potenti dopo il loro silenzio. Tutto cambiò quando arrivò il momento giusto. Nella più oscura rabbia, i fiumi di contestatori non erano interessati al genere di chi intonasse. La mia voce ed io ci confrontammo con l’incontro più intimo mai verificatosi tra di noi. In uno di quei giorni di gennaio, dieci anni fa, la mia voce si alzava quando cantavo per le persone che non conoscevo, che non mi conoscevano. Sentivamo voci di donnne che cantavano lungo ogni strada che portasse a piazza Tahrir, e questo era uno dei segni della rivoluzione.

(2)

Iniziai a lavorare nel giornalismo con lo stesso atteggiamento, costruendo muri tra me e i miei colleghi in una professione la cui storia era in parte scritta da Fathy Ghanem. La mia generazione di giornaliste ereditò la sua storia su come alcune donne avevano costruito le loro carriere salendo sulle spalle dei loro amanti: i grandi guru della professione. Queste storie tossiche inquietano ogni giornalista di successo che potrebbe procurarsi un po’ di spazio di pubblicazione o farsi un po’ di reputazione. E’ implicito che una giornalista non ha altro da offrire oltre al suo corpo ai maschi che esercitano la sua professione. Motivo per il quale la possibilità di pubblicare per le giornaliste principianti viene ridotta. Ho visto uomini sommergere donne con sorrisi venefici, mentre altri le incontravano privatamente nei loro uffici, pronti a balzare sulla preda al minimo cenno di lasciapassare, o forse anche senza. Le giovani giornaliste si sedevano al di là della scrivania dei loro capi maschi, tremanti e caute. Alcune cercavano di aggirare la situazione, altre declinavano gentilmente. Le manipolatrici continuavano nei corridoi dei giornali; nelle sale stampa si parla di giornaliste stupende, gli uffici scoppiettanti di voci maschili come in un ring di wrestling che valutano i corpi delle nuove giornaliste. Il capo dipartimento che pubblica di questioni femminili siede nell’unità d’inchiesta circondato dal suo coro di editori maschi che controllano i corpi delle colleghe quando camminano nei corridoi dell’ufficio. Era molto difficile che una giornalista riuscisse a svincolarsi da tutti i genitali maschili che si trovavano ovunque. 

Ho sentito storie dalle icone della generazione contemporanea di giornalisti, storie sui tycoon di questa professione, storie di molestie e violenza sessuale e storie di passione scambiata sul corpo di una moglie imbrogliata, o su convincere una donna dopo averle dato la caccia per mesi e anni perché era una proprietà di cui vantarsi. Ora, dopo che siamo stati inondati di testimonianze di violenze sessuali, ho sentito la stessa gente docilmente dire: “La violenza non è mai esistita ai nostri tempi!” Arriverà il giorno in cui i valori del giornalismo egiziano, costruiti sullo sfruttamento e sul rifiuto, crolleranno.

Una mia amica di una settantina d’anni mi racconta la storia dolorosa di come amava il giornalismo e di quanto tenesse al suo lavoro che ha fatto per poco tempo come inviata dopo l’Università. Poi finì la sua carriera dopo aver sposato un suo collega, un giornalista più grande, della rivista per cui lavorava, perché lui era uno scrittore brillante. Non importava quanto lei lavorasse duramente, avrebbero sempre detto che aveva fatto carriera sulle sue spalle. Ha lasciato il suo sogno sotto assedio là, nei corridoi degli uffici del giornale fino ad oggi.

All’inizio del mio impegno in politica e nel giornalismo, non esistevano conversazioni serie sulla violenza sessuale, neanche tra compagne. La nostra esperienza era giovane e fresca e idealista. Cantavamo contro le prigioni che non conoscevamo, e cantavamo per la libertà senza conoscere il pesante prezzo che avremmo pagato. Abbiamo ereditato una storia dell’attivismo che accettava gli interrogativi. Col tempo, le storie buie che ogni donna attivista ha avuto con gli uomini nei movimenti politici vennero alla luce, dallo sfruttamento sessuale alle complicate infedeltà dei mariti. Quello che era chiaro allora era che le donne non condividevano quelle storie tra di loro. Sono rimaste segreti oscuri, che macchiavano solo le donne coinvolte. Gli uomini monopolizzavano le narrative di queste relazioni mentre le donne venivano isolate e tagliate fuori anche dalle loro compagne di genere.

Va da sé che dato che gli uomini controllavano queste storie, la violenza e lo sfruttamento sessuale erano cause abbandonate. Ancora peggio, prendere a cuore queste questioni era considerata una distrazione per quelli che lavoravano nello spazio pubblico e nell’attivismo politico. Questo è più evidente nei commenti delle figure di spicco, uomini e donne di sinistra degli anni 70, quando l’opinione pubblica si interessa di una testimonianza di violenza sessuale per qualche giorno. Finalmente, qualcosa che mette nasseristi e comunisti sullo stesso piano. 

Le nostre madri politiche non aprivano lo scrigno dei loro segreti come stanno facendo le donne di questa generazione . Pochissime donne delle generazioni precedenti mostravano le  loro ferite. Una di queste era Arwa Saleh che ha lasciato il nostro mondo da una finestra, lasciando dietro di lei narrativa con cui la nostra generazione si è confrontata, rialzandosi dalle sue macerie. Ci ho pensato tante volte. Arwa se ne andò solo perché poté parlare? Parlare ci salva o ci uccide?

Molte donne degli anni settanta coprirono con matrimoni o famiglie che sembravano stabili vite che stavano effettivamente implodendo. Hanno fatto uno sforzo verso modelli normalizzati e tradizionali di relazione, a dispetto delle loro richieste di progresso politico. Forse volevano difendersi o semplicemente sovvertire lo stereotipo, sostenuto dalle virtuose autorità dello stato, che i comunisti sono pervertiti.

L’unica battaglia che ho attraversato in cui uomini dell’opposizione erano interessati alle violenze sessuali fu il giorno in cui le donne che protestavano furono molestate sessualmente al sindacato dei giornalisti, un giorno che venne chiamato il Mercoledì Nero del 2005. Le sopravvissute e le solidali decisero di far scoppiare il caso a livello locale e internazionale, e le loro vite diventarono un inferno perché insistevano nel perseguire i loro predatori. Anche se l’opposizione usò questo fatto per mettere in imbarazzo il regime, non è mai diventata una causa politica da inserire nella nostra agenda politica. Le violenze contro le donne sono rimaste secondarie anche nella scuola dell’attivismo contemporaneo. Il diffuso stato di negazione che ha imperato nell’opposizione di fronte alle richieste di donne che erano state aggredite sessualmente da attivisti, giornalisti prominenti e artisti non è per niente strano. Accusano le donne di sabotaggio, di cospirare contro il movimento e di lavorare per gli apparati di sicurezza: putride accuse a oggi ancora in voga.

E’ solo dopo che le donne si sono fatte avanti con testimonianze di molestie e stupri negli ultimi anni che i partiti liberali e di sinistra hanno adottato regolamenti e statuti per sanzionare gli abusi sessuali, nonostante la nascita dei partiti risalga alla fine degli anni settanta. E’ più probabile che, prima di questo momento, tali casi non venissero presi seriamente in considerazione. Mentre gli slogan politici dominavano il momento rivoluzionario, centinaia di donne stavano facendo degli sforzi enormi per formare gruppi di lotta contro le aggressioni sessuali in Piazza (Tahrir). I gruppi rivoluzionari risposero a questa autorganizzazione con aggressività; alcuni di loro andarono così avanti con il loro rifiuto della violenza che stava accadendo, che pretendevano che le violenze fossero provocate per macchiare l’immagine della Piazza. Ma, dato che le violenze continuarono a ripetersi e, dopo che abbiamo visto cose che avremmo voluto cancellare dalla nostra memoria per sempre, la negazione non è stata più possibile.

Ricordo una notte al Sindacato dei giornalisti quando le donne per la prima volta menzionarono i test di verginità a cui erano state obbligate a sottoporsi dai militari egiziani dopo che erano state arrestate, sopportare la crudeltà di questa orribile ispezione fisica in pieno momento rivoluzionario. Vennero messe in dubbio, diffamate e le loro storie vennero negate. Se non fosse stato per loro, questo crimine non sarebbe diventato di pubblico dominio non avremmo mai conosciuto l’alto prezzo che le donne hanno dovuto pagare per prendere parte alla rivoluzione egiziana. Ci racconta molto cosa affronta la donna egiziana nella sua lotta attuale: infatti l’uomo che aveva difeso questa pratica  ora è diventato il presidente e dà il via libera ai suoi uomini a invadere le vagine delle detenute. In questo momento le donne stanno lottando su tutti i fronti. Siamo di fronte alla più grande ondata di presa di parola delle donne su se stesse e sui problemi che affrontano. Non è stato facile. Stanno pagando il prezzo con la diffamazione e la prigionia, perché hanno osato allontanarsi dal sistema di valori falsi associati alla famiglia egiziana. Alla luce di eventi recenti, le conversazioni sulle relazioni consensuali, lo stupro coniugale e la ridefinizione di molestie e violenza sessuale si stanno riaprendo. Non avremmo osato discutere di queste questioni in pubblico, ora è invece uno dei segnali più grandi che qui c’è stata una rivoluzione.
                                      
 (3)

Per anni ho vissuto sotto la pelle della ragazza che poteva picchiare chiunque in un qualsiasi momento.
 Il mio corpo era allenato allo scontro, abituato dagli incontri quotidiani per la strada, dentro la metropolitana o mentre svolgevo il mio lavoro di giornalista in strada. Dopo essere stata costantemente generosa nell’usare la mia energia fisica quando io e chi avevo accanto si sentiva minacciata, ho realizzato che non era la parte migliore di me. A volte spingevo il mio corpo, forzandolo, a entrare in scontri pesanti, da cui usciva esausto e incapace di comprendere la violenza subita. Ci ho messo anni per capire tutte le strategie di difesa di questo corpo.

Mentre ricordavamo, insieme ad amicx, episodi passati condivisi, ho scoperto che dopo ogni scontro violento avvenuto, mi dimenticavo momentaneamente dell’accaduto. Le persone amiche raccontavano di azioni che avevo fatto di cui non ricordavo. La mia mente rinnegava tutte le mie azioni, mentre cercavo di ricordare la situazione, davanti a me vedevo solo un buco nero senza fine. Il mio corpo si ricordava da solo, di una frustata sulla schiena o di una spalla indolensita e se lo teneva per sè.

Mi sono accorta di averlo usato come scudo protettivo dal vero dolore, mentre il corpo lo ha messo da parte per farlo uscire nel momento opportuno.
Quando ciò accade, nessun antidolorifico può alleviarlo. Mentre il corpo parla, l’essere umano può solo riconoscere la sua verità. Il corpo richiama il trauma di un momento passato nascosto che pensava di aver superato. 

Il mio inconscio si ricorda alcuni di questi momenti, sento delle forti scosse, perchè come disse lo scrittore vietnamita Vu Tran: “Ciò che dimentichi subito, è fatto per essere ricordato di più dopo
Può questo voler dire che sono forse sopravvissuta alle conseguenze di un abuso? Di sicuro no.
Abbiamo bisogno di fare un lungo viaggio, da cui non sappiamo come ne usciremo, se curando e sviscerando le zone del dolore o se invece la situazione sarà complessa prolungando la sofferenza nel silenzio?
Forse sono sopravvissuta agli abusi e le molestie abituali sia all’università che nel luogo di lavoro. Ma mi sono dovuta confrontare con le prese in giro, il bullismo e gli sguardi increduli che si domandavano chi ci fosse dietro a questo strano corpo che passava attraverso uno stormo di occhi dall’atteggiamento feroce. Occhi che cercavano nel mio corpo un segno di femminilità che veniva distrutto dalla mia voce.

Aumentava lo sconcerto nel momento in cui agivo in modo spontaneo e sicura di me, si pensa che il farsi avanti e l’irruzione appartengano ai maschi, mentre la donna deve essere timida e aspettare la salvezza da qualcuno. Quando sono ormai arrivati alla scoperta del genere, si passa alla fase “è una donna che vale come cento uomini” per esprimere ammirazione o alla fase “è una donna mascolina” per sottolineare e condannare la stranezza del mio corpo.
Questa era una salvezza che sapeva di annegamento.

La memoria del corpo è confusa, preserva alcune sensazioni senza avere una visione complessiva. Mani che toccano ogni parte sensibile del tuo corpo è una sensazione mostruosa e violenta. Questo momento non se ne va, nè diminuisce l’impatto con il passare degli anni.
Tutte le persone sono state picchiate durante le manifestazioni che si trasformavano in attacchi da parte della polizia. I nostri corpi venivano colpiti di più. Ogni predatore sa perfettamente come colpire le donne e inoltre come colpire il senso di mascolinità dei loro uomini. Nascondere ciò che accade è a volte un’ottima soluzione per disfarsi della pesantezza del momento.
Questo cerchio infernale continua a girare efficacemente.

Come donne che abbiamo vissuto la maggior parte degli eventi politici di questo paese, negli ultimi venti anni, nessun incontro pubblico è sicuro per noi.
Nemmeno durante il picco dell’euforia collettiva, il giorno in cui Mubarak si è dimesso, era sicuro per noi. La sera lo stato di utopia era finito e dava spazio a una nuova fase più estenuante e violenta.
Come molte donne che hanno subito ferite lievi o pesanti durante gli scontri, come gas lacrimogeni, pallottole di gomma, abusi sessuali o verbali, spesso mi sono ritrovata a scontrarmi con il corpo. Nel quarto anno dopo l’inizio della rivoluzione, ogni tanto il mio corpo ha iniziato a darmi segnali di debolezza, la cosa non mi stupiva. 

Mi sono comportata come se nulla fosse, fino a negare la natura delle malattie. Pensavo che bastasse curarmi per qualche settimana per rimettere in sesto quello che non funzionava. Ma questo non bastava, la mia vita ogni tanto si fermava e a volte non riuscivo neanche ad alzarmi dal letto, senza l’aiuto di qualcuno. Con il tempo ho scoperto di avere tre malattie croniche (la pressione alta, delle ernie e la sinusite cronica). Avevo  appena trenta anni.

Ero arrabbiata con il mio corpo, continuavo a rifiutare che cadesse e si fermasse nel pieno della giovinezza. Ma non ero un caso a parte, tutte le persone intorno a me soffrivano. Non c’è miglior definizione se non “stress post-traumatico”. Il mio corpo si esprimeva rispetto a quello che la mia mente non riusciva ad elaborare velocemente. Ho seguito il dolore, ho ricordato forzatamente alcune situazioni e ho trovato la sua vera origine.

Ogni volta che il dolore al collo aumentava, sentivo ogni botta che aveva preso. Un momento in particolare è uscito dal profondo della memoria. Durante la manifestazione dopo l’assassinio di Khaled Said, mi avevano accerchiata un gruppo di informatori e poliziotti, all’entrata di Qasr Ismail nel quartiere al-Mounira,e hanno iniziato a picchiarmi selvaggiamente. All’inizio ho cercato di rispondere all’attacco, ma poi ho deciso di difendere la mia testa e i miei vestiti che comunque sono stati strappati poco dopo. Le vertebre del collo si sono presi tutti i colpi.  La memoria del mio corpo ha immagazzinato questo momento, senza passare per la mente che ha cercato di negarlo. Dopo aver evocato questa scena, ho osservato i movimenti del mio corpo a ogni attacco ricevuto e ho preso coscienza del fatto che le vertebre del collo per anni si sono portate addosso le conseguenze di qualsiasi scontro violento che ho vissuto.

Sulla base di questa esperienza, ho preso coscienza dei restanti ostacoli del mio corpo. Mi sono rivolta alla mia anima per cercare di ripararla dal ricordo degli attacchi che pensavo di aver superato.
È stato un lungo viaggio. Il sostegno delle amicizie, di una rete di solidarietà magnifica, le esperienze condivise per oltrepassare il dolore, erano e sono tutt’ora l’unico raccolto durante gli anni di una terribile dittatura.

Ora, prendo coscienza di cosa ho dato alla rivoluzione e che strumenti mi ha dato per curarmi.
Senza tutti i sorprendenti accadimenti avvenuti e che continuano finora ad avere una eco diretta, spingendo questa società a ribellarsi da gennaio del 2011, sarei rimasta imprigionata in un corpo senza conoscerlo dentro alla bolla del lavoro politico senza senso, il quale non vede che la libertà di questo paese passa dallincolumità e libertà del mio corpo.

Nella ricorrenza dal decimo anno della rivoluzione, mi ritrovo a disegnare dei confini tra un momento passato senza la possibilità di ritorno e la speranza infinita di un incontro prossimo con la mia nuova voce.

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Necrologio per Gudrun

Cosa hanno a che fare la violenza e la militarizzazione con le condizioni attuali?

Un necrologio per Gudrun (del FZ- FrauenLesbenMädchenMigrantinnen Zentrum)

Il 2 novembre 2020 un giovane uomo ha perpetuato un attacco a Vienna, in cui 4 persone sono state uccise indiscriminatamente e molte altre ferite. Una delle persone uccise era Gudrun, che ha contribuito a plasmare il bar del Frauen Zentrum per molti anni.

Come FZ (Centro per donnelesbicheragazzemigranti), commemoriamo la nostra compagna di lunga data Gudrun, che è stata uccisa il 2 novembre dall’attacco di un giovane uomo.

L’azione del perpetratore può essere scaturita dall’odio verso un sistema basato sull’esclusione, razzista. Ma l’odio dell’omicidio indiscrimato di persone è criminale, tanto quanto il sistema contro cui lui ha cercato di lottare.

Abbiamo conosciuto Gudrun come una donna energica, per cui era importante che ci fosse un posto dove DonneLesbiche potessero unirsi, aiutarsi l’una con l’altra e organizzarsi. Siamo in debito con lei per le ore infinite di volontariato al FZ, perché per lei era importante che questo luogo femminista fosse accessibile alle donne!

Ci ricorderemo in particolare del rinnovamento di tutto il bar nel 2003. Per molti anni è stata attiva nell’organizzazione delle feste nel FZ dopo la manifestazione dell’8 marzo, la giornata internazionale delle donne.

Spesso si sedeva ai tavoli delle donne e aveva sempre un orecchio aperto, anche verso le difficili realtà della vita. Per molte era un’amica e un punto di riferimento importante per trovare un’identità lesbica. Ha dato un sacco a tutte e sapeva come farlo senza tanto clamore.

Come ha già detto sua sorella nel necrologio pubblicato nel quotidiano di Vienna “Der Standard”, odio e violenza non erano una soluzione per Gudrun, ma parte del problema della nostra società. Una delle maggiori e centrali preoccupazioni per lei era di combattere la violenza contro le donne.

Come attivista era impegnata per una società antirazzista e antipatriarcale e non avrebbe voluto che i responsabili politici, come si può osservare ora, non si assumessero la responsabilità per condizioni che distribuiscono privilegi e potere in modo totalmente diseguale.

Non avrebbe neanche voluto che, in risposta all’attacco, la legge (austriaca) sulla cittadinanza venisse ristretta e che la discriminazione e l’esclusione sociale si intensificassero per questo motivo.

Avremmo parlato con lei della connessione tra la violenza maschile e la violenza razzista. Per esempio, del femicidio che ha avuto luogo a Penzing poco prima dell’attacco, della morte di un prigioniero in detenzione, su cui pendeva la deportazione due settimane fa, e della deportazione pianificata il 12 Novembre, quando numerose persone verranno deportate in Nigeria con voli Charter.

Quanto sono escludenti e razziste le nostre società e il nostro sistema educativo? Cosa hanno a che fare la violenza maschile e la militarizzazionecon le circostanze attuali? Che diritto ha Sebastian Kurz di parlare di una lotta tra civiltà e barbarie, quando è precisamente questa presunta politica “civilizzata” che è in parte responsabile per quello che chiama condizioni “barbariche”?

Queste sono le domande che Gudrun si sarebbe posta e che caratterizzavano la sua posizione politica.

Le nostre lotte per una società differente, per un mondo differente, richiedono precisamente questa prospettiva e solidarietà attiva quando si verificano esclusione e campagne denigratorie.

Diciamo arrivederci alla nostra sorella amica e compagna Gudrun! Ci mancherai!

Esprimiamo le nostre più profonde condoglianze ai suoi parenti, alla sua compagna, e alle sue amiche più vicine e anche ai parenti e amici di quelli che hanno perso le loro vite in quell’attacco!

Allo stesso tempo, ricordiamo quelli che sono stati uccisi nell’attacco di Kabul, che è avvenuto nello stesso giorno e ha provocato 19 morti e molti feriti. Siamo in lutto con voi!

Continueremo ad essere attive nella lotta contro la violenza contro le donne, femicidi, e condizioni misogine e nel promuovere un’autonoma e vivace persenza di donne e visibilità lesbica!

Dichiariamo guerra al razzismo, al patriarcato e al capitalismo!

Con tutta la nostra forza e amore per la vita continuiamo a combattere per una vita migliore per tutte/i nel mondo!

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Egitto – repressione e lettera di Sanaa dal carcere

Diffondiamo dal blog di Hurriya, la situazione sotto il regime egiziano e l’ultima lettera scitta da Sanaa dal carcere femminile di al-Qanater al Cairo:

Egitto – Nuove proteste, repressione e condanne a morte

Il 20 settembre scorso sono scoppiate delle proteste in tutto l’Egitto. Nella città di Assuan sono durate per giorni. Nel quartiere al-‘Awameya, circondato per giorni, la polizia ha assassinato a colpi di pistola Ueis al-Rawy, proprio sotto casa sua.

Come già successo precedentemente nei giorni successivi le proteste il regime ha messo in atto una dura repressione. Si contano più di 1943 arresti (almeno le persone ritrovate nei commissariati e procura dei servizi segreti). Tra loro anche la giornalista Basma Mustafa fermata mentre si recava a coprire quanto stava succedendo ad Assuan. Dopo alcune ore di fermo è stata rilasciata. 

Sempre negli stessi giorni il regime ha eseguito le condanne a morte di 49 persone (fonte); 15 di loro erano prigionieri politici; 13 avevano preso parte – secondo l’accusa – ad una ribellione dentro il carcere di Tora al Cairo in cui erano rimaste uccise anche 3 guardie. Quello che è successo in quei giorni di fine settembre non è stato mai chiarito. Ma la rapidità con cui gli imputati sono stati impiccati è la prova che il regime vuole nascondere per sempre la verità. 

Nel frattempo, è passato un anno dalla carcerazione di molte compagne e compagni, tra cui Alaa, Baker, Esraa, Mahienour. A Mahienour hanno aperto un nuovo processo mentre è ancora in carcere con le solite accuse.

Nel carcere Istiqbal Torah al Cairo è in corso un altro sciopero della fame da parte delle persone detenute a causa delle perquisizioni e vessazioni subite dalla direzione carceraria.

Tra le compagne ancora in carcere c’è anche Sanaa Seif, sorella minore di Alaa. Sanaa è stata arrestata il 23 giugno, il giorno dopo un presidio fatto insieme alla sorella Mona e alla madre Laila di fronte al carcere di Torah al Cairo, in cui le tre erano state anche aggredite da persone “sconosciute”. Chiedevano una lettera da Alaa, di cui non avevano notizie da mesi visto che le visite e i contatti, con la scusa della pandemia, sono state del tutto vietate. Il giorno seguente di fronte all’ufficio del Procuratore Generale dove si erano recate per sporgere denuncia, Sanaa è stata rapita e caricata su un furgoncino di uomini in borghese, per poi essere trasferita in carcere.

Ora è in corso un processo contro di lei per diffamazione a pubblico ufficiale e la prossima udienza si terrà l’11 novembre.

Questa è la lettera che ha scritto Sanaa dal carcere femminile di al-Qanater al Cairo.

Sanaa scrive del carcere, dei libri, del caos in testa e degli ufficiali dei servizi di stato!

La vittoria di questa settimana è  Fantastic Beasts and Where to Find Them, l’unico libro entrato. Mentre il poliziotto della sicurezza di stato sfogliava il libro, ne ho visto un altro, Python. Potevo allungare la mano e prenderlo. Dopo qualche secondo, però, ha deciso di non farlo entrare insieme alla lettera.

Il libro ora sta a qualche metro di distanza da me, insieme a un’altra pila di libri, sulla scrivania dell’ispettore capo dei servizi di sicurezza. Ogni volta che entro nel suo ufficio ho un pensiero costante: “Cosa succederebbe se rubassi il libro e me lo portassi dentro? O se fuggissi dall’ora d’aria verso il suo ufficio per rubare due libri? O mentre rientro da una delle udienze di questo processo senza fine? Cosa succederebbe? Mi darebbero della pazza, ladra di libri? O semplicemente aprirebbero un nuovo processo?” Mi piace questa idea, forse dovrei rubare i miei libri che detengono, così avrei un futile processo, come la situazione in cui mi trovo attualmente.

Mi sono fermata un attimo a esaminare lo scorrere dei miei pensieri. Quando la vita è diventata così insensata? La mia giornata gira intorno a inutili dettagli, dettagli che dovrebbero essere banali, ma ora sono tutt’altro che tali. Cerco di darmi degli obiettivi dal nulla, solo per riuscire ad arrivare al giorno seguente. Quando ho imparato ad adattarmi a tutto questo? È questo il miglior modo per adattarsi al carcere? O sto usando una tattica sbagliata che lentamente mi porterà alla follia? E perché mi preoccupo di cosa è sano mentre sono qui immersa nel nulla? E Alaa?! Anche lui continua a inventarsi dei trucchi per adattarsi?

Sento che la mia testa esploderà a forza di pensare al nulla e cerco di ricordare a cosa pensava la mia mente prima di entrare qua dentro.

Ci chiedevamo che forma avrebbe avuto il mondo dopo il covid-19. Quesiti stimolanti e preoccupanti allo stesso tempo. Siamo pronti a un mondo dove la tecnologia giocherà un ruolo fondamentale nelle comunicazioni e nella coproduzione? O temiamo un mondo dove la vita privata subirà sempre più restrizioni mentre gli Stati coglieranno la palla al balzo per spiare e sorvegliare ancora di più? E per chi come noi crede nella cultura libera, nella decentralizzazione della rete e l’accessibilità della tecnologia per tutte le persone? Qual è il nostro ruolo in questo nuovo scenario? E in Egitto e nei paesi del “terzo mondo” come ci comporteremo di fronte a queste sfide?

Ancora vi ponete queste domande là fuori? O le avete accantonate, mentre ero occupata a lottare per avere carta e penna che sto usando ora per scrivere?

Torno a parlare del mio libro, ha solo 293 pagine. Non lo leggerò oggi. Siamo solo all’inizio della settimana e forse non faranno entrare nessuno dei tanti libri che mi arriveranno, forse sì o forse no, non lo so.

L’ufficiale mi ha detto: “Pensa di vivere in un palazzo in cui non vorresti vivere, io sono il tuo vicino quindi sei obbligata ad avere a che fare con me. Il tuo problema è che pensi che l’edificio ha delle basi, ma non è così. Una volta posso concederti un libro, forse la prossima volta vieterò i libri, forse ti concederò una lettera”.

Ha continuato a parlare facendo diversi paragoni: “Tu credi di portare avanti una guerra, mentre in realtà continui a rimanere bloccata nello stesso posto” – parla del mezzo bicchiere pieno che non riesco a vedere e del cartello che metterà davanti al cancello del carcere che dice: LA SICUREZZA DI STATO NON PUO’ ESSERE OBBLIGATA A FARE NIENTE! Così non me lo dimenticherò, visto che dimentico facilmente e sono stupida. Parla ancora della legge che non si applica né su di me né su di lui e infine del nostro incontro di cui l’unico testimone è Dio.

Per qualche strana ragione ha iniziato il suo discorso: “Se l’assassino avesse avuto pazienza, la sua vittima avrebbe…” E aspettava che continuassi il resto del proverbio. 

Queste immagini hanno sovrastato la mia mente: un edificio in bilico, un vicino indesiderato, un portiere indifeso, un bicchiere che qualcuno vede pieno e qualcun altro vuoto, un assassino senza pazienza, la situazione dentro e fuori, il ruolo specifico all’interno dell’edificio che portano avanti il vicino e il portiere.

Mi sono persa nel cercare una logica nella sequenza di queste immagini. Poi un pensiero terribile mi ha colpita: anche la linea dei miei pensieri è diventata casuale e caotica. Mi sono chiesta se fosse per la natura di questo luogo? È forse questo il destino di tutte le persone che vivono in questo edificio che è fuori da ogni logica, tempo e pandemia?

Finalmente ho sonno. Ho esaurito la mia testa in pensieri inutili e il tempo è passato. Ora posso dormire aspettando domani per leggere il mio libro. Domani mi libererò da tutte queste immagini stupide con cui ha occupato la mia immaginazione. Domani sarò salva almeno per qualche ora.

Sanaa 

dal carcere di al-Qanater 2020

link: https://hurriya.noblogs.org/post/2020/10/23/egitto-nuove-proteste-repressione-e-condanne-a-morte/#more-7259

 

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Crisi/pandemia: la furia delle donne scateniamo – Assemblea telematica donne/lavoratrici

Riceviamo e diffondiamo l’incontro delle compagne lavoratrici precarie dell’Mpfr:
Qui sotto il link:

– https://www.facebook.com/events/645446739688646/

L’ASSEMBLEA TELEMATICA SARA’ IL 17 SETTEMBRE DALLE ORE 16

Nella crisi pandemica le lavoratrici sono tornate con forza nella prima fila della lotta delle donne, tra di esse soprattutto le operaie, le lav. immigrate, le lavoratrici precarie.
E a settembre sono pronte a riprendere il loro posto di combattimento.

PER INIZIARE BENE
IL 17 SETTEMBRE DALLE ORE 16 organizziamo una assemblea telematica
“La furia delle donne scateniamo!” su:
– la condizione delle donne durante e dopo il lockdown:
Relazione, testimonianze delle lavoratrici, interventi, interviste/inchieste, ecc.
– la lotta che serve a tutti i livelli – la piattaforma delle donne
– la comprensione di “parte” del sistema borghese di doppio sfruttamento e oppressione, di come esso si riattualizza in questa fase – riprendiamo Engels “l’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato – nel bicentenario della sua nascita.
– non vogliamo abbellire la “normalità”, vogliamo la anormalità della rivoluzione.

Il link per collegarsi è:
https://meet.google.com/tnq-kqph-zkg
Ma fin da ora si può comunicare la propria partecipazione, interventi a: mfpr.naz@gmail.com
slaicobasta@gmail.com

 

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Egitto: Libertà per Sanaa, libertà per tutte e tutti

Sanaa è nel carcere femminile di al-Qanater al Cairo dal 23 giugno 2020, giorno in cui  guardie in borghese l’hanno rapita da davanti l’ufficio del Procuratore Generale.

Sono migliaia le persone in carcere preventivo in Egitto per motivi politici.
In questi giorni è partita una campagna di solidarietà per la liberazione di Sanaa e non solo.

(Di questo video ci sono i sottotitoli in italiano, inglese e spagnolo)

Contro ogni carcere.
Per la libertà di tutte e tutti ovunque nel mondo.

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Sequestro di Sanaa

Il 23 giugno Sanaa Seif è stata rapita da davanti l’ufficio del Procuratore Generale al Cairo.
Sanaa insieme a Laila Soueif la madre, Mona la sorella, si erano recate per denunciare il pestaggio avvenuto la sera precedente davanti al carcere di Tora al Cairo, dove erano rimaste in presidio la notte per ricevere una lettera di Alaa Abdel Fattah, il fratello, rinchiuso da settembre nel carcere di massima sicurezza.
Sanaa è stata pestata violentemente quella notte.
Sanaa è stata in carcere già due volte, per settimane non si sono avute notizie di lei, dopo il trasferimento nel carcere femminile di al-Qanater.
Durante le visite, in cui i familiari non possono vedere le persone care, con la scusa della diffusione del COVID-19 si può solo far entrare alimenti e a volte è prevista la corrispondenza, ma spesso li rimandano indietro e le lettere vengono negate.
Sanaa si trova in carcere preventivo, che per “legge” può durare fino a due anni.
Dal mese di marzo molte compagne sia al Cairo che ad Alessandria sono state prelevate dalle proprie case, sottoposte a sparizione forzata e i rinnovi avvengono su carta senza trasferimento in procura.
Sono migliaia le persone che si trovano in carcere preventivo per motivi politici.
Libertà per tutte
Libertà per tutti
In questo video, Mona racconta il rapimento della sorella e descrive la repressione che quotidianamente i militari attuano nei confronti delle persone che hanno processi politici, ma non solo.
Contrastano tutto ciò che è libertà.
Ultimamente hanno arrestato dei ragazzi di un quartiere popolare al Cairo, per aver fatto volare degli aquiloni.
Il regime è spietato e l’Italia come l’Europa appoggia e sostiene economicamente e militarmente chi vorrebbe semplicemente vivere.
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Roma – 9 luglio: Black Lives Matter – Incontro con Silvia Baraldini

Da https://www.inventati.org/rete_evasioni/

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