Dove vanno a morire le vecchie lesbiche

Riceviamo e pubblichiamo la traduzione di un testo dal giornale indipendente egiziano Mada Masr
Link del testo originale in lingua inglese:
https://www.madamasr.com/en/2020/02/17/opinion/u/where-do-old-lesbians-go-to-die/

Dove andiamo a morire, quando abbiamo vissuto migliaia di vite in un mondo che non è stato fatto per noi? Dove andiamo a morire, quando non siamo mai state qui? 

Mentre compio quarant’anni mi ritrovo a chiedermi cosa significhi invecchiare e cosa significhi morire. Vedo altre persone che invecchiano, le loro vite che si spostano per accogliere coniugi, figli, feste di compleanno, suoceri, incontri genitori-insegnanti, pettegolezzi coniugali, relazioni e divorzi che coinvolgono amici e famiglie. Senza queste tappe obbligatorie l’unica metrica che posso prendere in prestito da quel mondo che non ci voleva, è che quello che ho avuto è più lungo di quello che resta. Questa metrica, applicata alla mia vita, si traduce in: Ho amato più donne di quante me ne siano rimaste da amare. Ho conosciuto più passioni e strazi di quanti ne scoprirò nel tempo che mi resta. Ho combattuto più lotte per affermare la mia esistenza di quante ne rimangano da combattere. 

Ho combattuto per tutto il tempo che posso ricordare: Combattendo il mondo che non mi vuole, combattendo la mia famiglia che non mi vuole vedere, combattendo la nozione di un dio il cui trono trema di rabbia quando amo, e combattendo un io che non cede per rendere tutto più facile. Ho combattuto ad alta voce e combattuto ancora più forte nella mia testa, quando le parole si rifiutavano di lasciare la mia bocca. Le mie labbra si chiudono, per preservare la mia vita. Le mie parti del corpo che mi sfidano, per il bene dell’imperativo biologico di vivere. Troveremo la pace nei momenti della nostra morte o lotteremo ancora per affermare la nostra esistenza?

Ad ogni confronto con questo mondo che non ci lascia essere, i contorni di ciò che siamo si riorganizzano per cercare di preservare il più possibile di noi e tenerci ancora in vita. La lotta è primordiale, è giovane, come un bambino che sta imparando a dire “io”, che “io” è separato dal genitore, che lui stesso è un individuo con desideri, esigenze e desideri propri. Come possiamo invecchiare quando il mondo in cui viviamo non ha mai smesso di fare figli di noi più e più volte?

Non conosco nessuna vecchia lesbica, tranne una nella mia famiglia che nessuno dice che lo sia. Passa le sue giornate da sola, bevendo, inciampando fuori da casa sua nelle strade spietate del Cairo. Quando viene rimproverata per i suoi capelli corti e il suo abbigliamento maschile, le sue labbra – a differenza delle mie – erose dalle parole che hanno trattenuto e consumate dall’alcol egiziano a buon mercato che beve, non la preservano. Il tempo si è fermato e gli ultimi due decenni sono stati un disco rotto che incrina un’altra parte del suo corpo, il naso, le braccia e gli stinchi, ad ogni oscillazione, ad ogni confronto. Due decenni fa, la sua migliore amica, che ha vissuto con lei per tre decenni, se n’è andata. La nostra famiglia l’ha consolata di più quando ha perso un cane. Come invecchiare quando il tempo si ferma e gli unici spazi in cui esistiamo sono le nostre immaginazioni?  

Diamo l’addio ai nostri consanguinei presto, non appena intravediamo i primi segni di ciò che siamo. Li perdiamo lentamente, li guardiamo impotenti, arrabbiati perché non c’è scelta che possiamo fare, mentre si allontanano da noi. Se scegliamo di condividere noi stessi con loro, li perdiamo e loro perdono noi. Se scegliamo di non condividere noi stessi, li perdiamo, mentre loro rimangono ancora, mentre noi rimaniamo ancora per loro. Esistiamo intorno a loro, vescicole vuote, manovrando i nostri corpi mentre passiamo il sale sul tavolo. Lo stesso sale che hanno sparso negli angoli delle loro case per proteggerli dai demoni. I demoni che senza dubbio crederebbero che incarniamo se avessero intravisto chi siamo e come viviamo. Ho sentito voci di vecchie compagne lesbiche, una delle quali se n’è andata di recente. Non la conoscevo. Ho visto la morte arrivare per lei, il mondo che celebrava ogni parte di lei, tranne come il suo cuore si ribellava a tutto ciò per cui gli veniva detto di battere, per cui non poteva fare a meno di battere. Chi ci piangerà per come eravamo, quando non siamo mai state?

Dicono che la perdita fa invecchiare e noi abbiamo perso così tanto. Le nostre perdite trascendono la nostra biologia e ne perdiamo troppe prima che le porte delle loro tombe siano chiuse. Dicono che la perdita ci rende resilienti e pieni di risorse. Costruiamo con risorse i nostri parenti scelti, dove la capacità di conoscerci e di vederci come siamo è più spessa del sangue. Forse ci siamo abituati ai finali bruschi e alle separazioni vaganti a causa della Prima Perdita. Da allora abbiamo sperimentato vite di famiglie scelte che svaniscono; poi le abbiamo rimpiazzate con resilienza e risorse, più e più volte. Come possiamo invecchiare quando siamo più vecchi delle nostre vite due e tre volte, quando non siamo mai stati giovani? 

Come possiamo descrivere la natura di come desideriamo, ci colleghiamo e cerchiamo di costruire vite di partnership con la parola amore, quando questa parola non è mai stata pensata per descriverci? La nostra esistenza quotidiana è inondata dall’immaginario e dalle pratiche delle relazioni umane normative, che ci ricordano quanto ci siamo allontanati da tutto ciò che era stato pianificato per noi prima ancora che fossimo qui. Cosa significa amare quando niente intorno a te chiama amore ciò che senti? Quali parole dovremmo usare per descrivere l’amore, quando amare e lottare per essere sono sinonimi? La ribellione appartiene ai giovani e io non avrei mai potuto immaginare la mia vita al di là di quello che ero. Quando ho iniziato a vedermi, per metà speravo e mi aspettavo di superare me stessa, trovare un coniuge adatto, avere dei figli, dare ai miei genitori dei nipoti, crescerli e più tardi vedere i miei propri nipoti, ma invece sono rimasta fermamente ancorata alla mia giovinezza mentre continuo a ribellarmi. Come si può invecchiare quando esistere significa aggrapparsi strettamente a ciò che appartiene ai giovani? 

Ho solo un riferimento su come invecchiare: una squallida scala lineare, confrontando ciò che è stato vissuto, deducendo ciò che resta da vivere. La scala è un parametro privo di comunanze celebrative, come i matrimoni, le nascite, o il semplice atto di vedere la nostra stessa prole ripetere queste pietre miliari. Quando festeggiamo, o lo facciamo in segreto, o abbiamo nascosto parti di noi stessi, in cambio di uno spazio in questo mondo, anche quando si adatta in modo goffo e scomodo. Le cuciture che ci tengono insieme si allungano e i nostri vestiti che non ci stanno bene si stropicciano, ma quando la macchina fotografica si sposta per la foto di famiglia, i difetti dei nostri abiti sono nascosti dall’illuminazione esperta e dai corpi in scena della famiglia che ci circonda. Se i nostri abiti rimangono sgraziati, saremo tagliati fuori dalla foto. Racconteranno parti della nostra storia e lasceranno convenientemente fuori le parti che costituiscono chi eravamo veramente. Così come il mondo non ha avuto spazio per noi così come siamo, il passare del tempo non è stato in grado di lasciare che le nostre storie plasmassero il significato del suo passaggio. Restiamo allo stesso tempo confinati e liberati, diaspore di esuli materiali e immaginari. Non invecchiamo, né siamo mai state giovani. Non andiamo da nessuna parte, perché non siamo mai state qui.

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