Aspettando i colloqui

Riceviamo e pubblichiamo la traduzione di uno scritto di una compagna che scrive della sua esperienza personale nel carcere femminile di al-Qanater in Egitto.

Non volevo scrivere niente ora. Spesso sono sopraffatta da un miscuglio di emozioni tra la vergogna e il senso di colpa perchè la mia reclusione era sopportabile, rispetto a qualunque persona sia reclusa in questo momento, ma anche rispetto a molte persone durante il periodo della mia reclusione dentro il carcere femminile di al-Qanater del Cairo. Ogni tanto quando racconto dell’esperienza del carcere, sono molto consapevole dei privilegi che avevo e spesso sento di dovermi scusare e c’è una frase che ho ben in mente: “Nonostante fossi reclusa nel miglior carcere in Egitto e la maggior parte delle persone ha un’esperienza peggiore della mia, ma …e inizio a parlare”. Questa mattina sono andata a comprare una cosa, sono arrivata un minuto prima dell’apertura del negozio; i lavoratori nel negozio dopo un’attesa di 10 minuti (che per me è tanto) mi hanno detto che dovevo attendere mezz’ora perchè non trovavano le chiavi.

Da qualche anno mi arrabbio molto facilmente e mi innervosisco molto quando i miei piani saltano (poi è arrivata la pandemia a dirci che niente al mondo seguirà un piano).
La cosa strana è che proprio nel momento in cui stavo per arrabbiarmi, all’improvviso mi sono ricordata del carcere. Mentre ero in attesa, mi sono rivista quando indossavo la galabeya, (la tunica bianca che tutte le detenute sono obbligate a indossare), per andare al colloquio aspettavo che Umm Yehya la secondina, aprisse la cella per vedere le persone care.
Il giorno del colloquio è il giorno più importante della settimana, non solo per chi riceve la visita, ma per tutta la sessione, anche se chi ha ricevuto il colloquio è rientrato in cella triste. Dopo il colloquio sei piena di racconti sia felici che tristi. Notizie, discussioni e a seconda di chi visita, ricevi cibo cucinato, surgelato o altro.
Il colloquio è al centro della detenzione, ma anche il modo con cui si scandisce il tempo per passare la reclusione.

Mi ricordo di una discussione fatta con un’amica dentro: io volevo che emettessero la sentenza per sapere quanto tempo saremmo rimaste dentro (odio l’attesa in generale), mentre lei voleva che rimanessimo sotto processo, così avremmo continuato ad avere un colloquio a settimana.  Chi ha ricevuto sentenza ha diritto alle visite ogni 15 giorni e chi è nella sessione delle persone condannate a morte solo una volta al mese, anche se per legge dovrebbero ricevere visite ogni 15 giorni come le altre persone processate. Dopo la sentenza di 3 anni di reclusione per il nostro processo, ci chiedevamo se avremmo dimenticato le “persone fuori” in quanto la nostra permanenza sembrava lunga (ai tempi eravamo ingenue, spaventate e tre anni sembravano veramente tanto tempo).
Ci chiedevamo se i nostri amici si sarebbero stufati o se ci avrebbero dimenticate e come ci saremmo abituate alle visite ogni 15 giorni dopo che le ricevevamo ogni settimana. Dovevamo forse fare come altre donne all’interno del carcere che dicevano ai familiari di visitarle una volta al mese? Era un modo per non sovracaricare le proprie famiglie e per far passare il tempo in fretta. La misura del tempo dentro il carcere è scandita dai colloqui.
Quante visite ci sono dopo che è stata emessa la sentenza? Quanto tempo e energie vengono disperse per ogni visita dalle nostre famiglie? E quante sono le spese per ogni visita? Per fortuna non abbiamo deciso di diminuire le visite.
Al tempo litigavamo con la direzione carceraria sulla durata dei colloqui su quello che ci facevano entrare o proibivano.

Non riesco ad immaginare se fossi stata in carcere e i colloqui fossero stati bloccati cosa mi sarebbe successo. Come avrei reagito alla preoccupazione per la mia famiglia e i miei amici? Di sicuro le giornate sarebbero state tutte uguali e avrei perso il senso di differenziazione tra giorni, settimane e mesi. Cosa avrebbe provocato al mio stato mentale? Tutte le ipotesi sono un incubo. Il carcere è un incubo. Il carcere senza colloquio è un incubo peggiore.
E il carcere senza il sostegno di famiglia e amici appesentisce il cuore e aumenta all’isolamento il senso di solitudine. Tutti i saluti da fuori e tutto quello che si diceva sul nostro processo venivamo a saperlo. Perfino le persone che non riuscivano a chiedere direttamente di me, sapevo che lo facevano chiedendo come stesse la mia famiglia. E questo faceva la differenza.
So molto bene che avere una persona che conosci in carcere ferma la vita a chi invece è fuori. Emotivamente c’è un miscuglio di sentimenti tra paura e la possibilità di fare la stessa fine e spesso vieni colpito dal senso di inadeguatezza che ti blocca completamente. Il carcere ora non è come nel 2014: i colloqui sono vietati, gli alimenti sono vietati e non c’è la possibilità di ricevere e spedire la posta. Mi chiedo come si può alleggerire il senso di isolamento delle persone dentro o come la solitudine si possa alleviare. Come?

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