È di fatto estremamente difficile per una donna, in questo momento di emergenza sanitaria, telefonare o uscire di casa per denunciare il proprio aggressore e scappare dalla violenza domestica quotidiana, acutizzata dall’obbligo di isolamento, dalla sorveglianza nelle strade e dall’incertezza economica.
Anche se alla tv dicono che è possibile, nei fatti l’aggressore non si allontana mai; tutti gli spazi al di fuori della casa, a eccezione del supermercato, sono chiusi, la libertà di movimento è negata.
Il sostegno economico è una chimera, come allontanarsi, se non hai un reddito che ti rende autonoma?
Le nuove richieste d’aiuto ai centri antiviolenza per donne sono diminuite drasticamente, meno della metà del periodo pre covid-19.
Accogliere nuove donne nelle case rifugio spesso presenta delle difficoltà, come l’obbligo di quarantena per 15 giorni in una struttura separata.
L’attuale sistema di contrasto alla violenza sulle donne si rivolge alle donne, non agli uomini che la agiscono, per i quali la violenza non è mai un’urgenza e possono restarsene dove sono, invece di esser loro a lasciare la loro casa e le loro cose.
I centri senza-violenza per maschi violenti, la cui partecipazione è facoltativa, oltre a continuare gli incontri in video chiamata, non mettono a disposizione rifugi per allontanare il maschio violento.
Oggi è chiaramente necessario al patriarcato capitalista che il vissuto della donna resti sommerso.
In questo momento d’emergenza devono rimanere sommerse le condizioni di lavoro riproduttivo capitalizzato (assistenza, pulizie, insegnamento, ecc…), svolto in netta prevalenza da donne. Deve essere sommerso il lavoro riproduttivo domestico che (nella migliore delle ipotesi…) si accavalla a quello capitalizzato, magari svolto da casa, in qualche fabbrica-focolaio, nelle Rsa, negli ospedali, nei supermercati. E se ci sono figli/e o parenti che necessitano di particolare cura e assistenza o se è una donna a star male, la situazione si fa davvero dura.
Oggi più che mai non c’è spazio né tempo per voler vedere l’oppressione doppia e tripla della violenza maschile sulle donne.
Questo vale sia per le donne che in questo momento sono recluse in qualche luogo di detenzione, sia per le donne che non hanno una casa, sia per quelle per cui la casa è il luogo di lavoro e il poter uscire a fare una passeggiata l’unico momento di stacco, sia per quelle che sono rinchiuse dentro la “sicurezza” di una casa.
Lo stato liberale, il cui dio è il capitale, mostra il suo volto paternalistico e patriarcale e impone un programma di salute pubblica sulla pelle delle persone recluse, di chi non ha capitali e sulle donne.
La repressione è forte. Le strade sono piene di sbirraglia di maschi armati e machisti che ci ricordano che la violenza maschile è strutturale allo Stato.
La strada, che già prima non era uno spazio sicuro per noi, ora lo è ancora meno. Conosciamo bene questa sensazione, sentirci minacciate e all’erta, sentirci come se dovessimo farci piccole piccole per passare inosservate, rapide, come se non ci fosse del tutto lecito attraversare quello spazio, nè di notte nè di giorno.
Ora questa sensazione, che influenza i nostri pensieri e i nostri corpi, è amplificata dalla presenza delle forze dell’ordine, dalla presenza prevalente di uomini fuori casa, dall’assenza di persone per i vicoli deserti che attraversiamo, da sole.
Ci guardiamo attorno e non troviamo nessuno che ci faccia sentire confortate; sappiamo che se grideremo e correremo dietro l’angolo forse nessuno verrà in nostro soccorso.
Se cerchiamo uno sguardo in una passante, uno scambio di sorrisi che ci facciano sentire di nuovo coraggiose e capaci di proseguire, non li troviamo: le altre donne camminano a distanza, hanno paura, si tengono distanti, gli sguardi bassi. Se qualcuno ci guarda, se si tratta di uomini non sono certo sguardi di solidarietà, ma piuttosto di desiderio e possessione; le donne che ci hanno rivolto la parola a volte lo hanno fatto con ostilità e disapprovazione, inducendoci a tornare a casa, e questo è stato a dir poco sconfortante.
Ci manca il confronto tra di noi per poter reagire e poter capire come farlo, con quali parole e con quali gesti.
L’indifferenza verso ciò che viviamo e verso l’isolamento che sentiamo è diventata onnipresente e soffocante. Non siamo più sicure nelle nostre case, nè meno sole; e non siamo più sicure fuori, nè meno sole. Il confine tra il dentro e il furoi casa è un’altra di quelle frontiere fittizie che marca lo stato e che fa diventare maledettamente reali, segnando i contorni delle vite di chi subisce maggiormente le violenze del sistema. La retorica militaristica con cui i media parlano del virus amplifica queste percezioni e contribuisce a far apparire come necessarie le misure prese dal governo e la mobilitazione massiccia della repressione e della sorveglianza.
Siamo in guerra, il virus è da combattere, non ci sono altre vie percorribili.
Lo stato ci proibisce di far sentire la nostra voce, di esprimere le nostre idee su come si potrebbe affrontare la situazione. Non ci stupisce: lo stato è un dominio maschile, i politici, gli esperti, i poliziotti, sono tutti uomini. La maggioranza di donne che lavora negli ospedali, nei centri di assistenza, nelle case, sono invisibili, impercettibili, chirurgicamente rimosse dal discorso mediatico.
Sono uomini quelli che ci dicono come dobbiamo comportarci, cosa dobbiamo fare, come dobbiamo sentirci, come dobbiamo reagire.
Ci tolgono ogni forza; ci si rivolgono come padri autorevoli che vogliono mostrarsi gentili, a patto che tu stia alle loro regole. Non vogliono essere contraddetti. Ci fanno sentire impotenti, incapaci di fare qualcosa. Dettano quelle che sono le nostre necessità: dove comprare, che cosa, e cosa la nazione deve produrre ed esportare. Di prima necessità è la fabbricazione di armi, perchè le vite che contano si contano sulle dita di una mano, mentre quelle di altre donne muoiono a distanza da noi sotto alle bombe e alle macchine di morte che esportiamo.
Questa produzione, la sbirraglia, i discorsi militaristici, il paternalismo dello stato, le misure fatte applicare, l’invisibilizzazione dello sfruttamento femminile e della violenza maschile, troviamo che siano tutte conferme del fatto che lo stato, la cultura della guerra e della violenza maschile sono tra loro strettamente legate.
Ci vogliono costringere a stare a casa, nascoste, silenziose, non ci si deve vedere e non ci si deve incontrare. Lo Stato si rivolge a un “noi” con cui non possiamo riconoscerci.
Lo stato si regge sulla famiglia, sul privato del sesso e della proprietà, sulla sottomissione e sfruttamento del lavoro riproduttivo delle donne (sesso, procreazione, cura dei corpi, della casa e degli affetti) e sulla linea del colore. Imporre di restare a casa significa scegliere di scaricare l’emergenza sanitaria, la recessione e l’eventuale (non auspicabile) ripresa capitalista sulla pelle delle donne.
Risulta chiaro anche da altri aspetti come lo Stato è prima di tutto violenza sulle donne. Se un marito geloso vuole sua moglie chiusa in casa, ora lo Stato lo accontenta ponendo tutte le condizioni adatte.
La cultura dello stupro è ancora vigente e strutturale; se lo stupro coniugale era invisibile, ora è indicibile.
Se la frustrazione maschile si trasforma spesso in violenza sulle donne, sappiamo che la frustrazione in questo momento è altissima.
E se abortire prima era difficile, ora è praticamente impossibile. Molti ospedali hanno smesso di praticare l’IVG, i consultori hanno ridotto gli orari di lavoro, decidere con chi condividere la scelta di abortire in un momento in cui le nostre relazioni sociali sono forzate o negate è spesso impossibile.
A causa di questa emergenza sanitaria inoltre si è accelerato il disegno economico-politico di digitalizzare le nostre vite. Questo, in un sistema patriarcale e tecno-capitalistico, significa che la violenza maschile sulle donne non solo si perpetua sul piano materiale, ma anche in quello virtuale.
Basta pensare a siti e gruppi come Revenge Porn per ricordarci come tutta la nostra civiltà tecno-capitalistica sia basata sulla cultura dello stupro e su come questa cultura sia necessaria all’accumulo di capitale.
Di queste questioni la propaganda di regime non parla e, se lo fa, ne parla in termini in cui la donna è vittima e non una persona che possa autodeterminarsi, né ora né mai.In questo momento è illegale continuare a trovarci per stare insieme, allenarci, sostenerci, autogestirci la quarantena.
Se già in tempi di presunta “normalità” sentivamo la nostra autonomia minacciata e ostacolata, ora, in continuità tra un “prima” e un “dopo” – una retorica che serve a invisibilizzare ulterioremente lo sfruttamento e la violenza patriarcali – ci sentiamo ancor più colpite da misure che ci privano della responsabilita’ individuale e collettiva sulle nostre stesse vite e dalla loro criminalizzazione.
E’ illegale correre in aiuto di un’amica, parente, vicina. E’ illegale la solidarieta’, ora piu’ che mai.
Se al patriarcato capitalista è necessario che il vissuto delle donne resti sommerso, allora è necessario far emergere il sommerso, che significa alterare e mettere in crisi l’equilibrio psicologico maschile basato sulla sottomissione delle donne. Significa rendere evidente e mettere in crisi l’alienazione del patriarcato, del capitale e del suo stato che, con le logiche del mercato e della devastazione ambientale, ci ha portato a ciò che viviamo ora. Significa mettere in discussione ciò che la “giustizia” maschile ha naturalizzato e tracciare sentieri di possibilità di liberazione totale.
Se tutto ciò di cui abbiamo parlato era già presente prima dell’inizio della quarantena, ora è peggiorato e si è reso nettamente esplicito. Ci è stato tolto troppo: vogliamo riprendercelo. Ribellarci significa sopravvivere, trovare nuove strategie per reagire, per incontrarci, per rafforzarci, per cercare riferimenti tra di noi e non altrove, dove non è possibile trovarli, per amarci, per prenderci cura.
Con la solidarietà femminista questi sentieri possiamo percorrerli.
Ogni cuore è una bomba a orologeria.