Contro la violenza sulle donne – appunti da una chiacchierata con un’operatrice di un CAV

Ciao, ci diresti, in due parole, di cosa ti occupi?

Ciao! Lavoro come responsabile di un centro antiviolenza. I centri antiviolenza sono luoghi radicati sul territorio che lavorano con le donne sia nelle azioni operative (ascolto, colloqui con i servizi sociali, accompagnamenti alle forze dell’ordine per denuncia, accoglienza nelle case rifugio, etc), ma sono anche luoghi, o almeno dovrebbero, dove fare politica con e tra donne. Ricordiamoci che i centri antiviolenza nascono dal movimento femminista. Sono state le femministe a rompere il silenzio, a dire che la violenza non è il nostro destino in quanto donne. Da sempre sono le femministe a prendersi la responsabilità politica della violenza maschile sulle donne, a nominarla e smascherarla in quanto prodotto strutturale del nostro sistema culturale e sociale.

 

Partiamo da una questione cruciale: nel periodo attuale le donne che lo richiedono, hanno modo di essere accolte? Ci sono normative particolari o maggiori complicazioni rispetto al solito?

Le case rifugio sono aperte e ci sono nuovi inserimenti. È però imposta una quarantena di 15gg, che si svolge presso altri luoghi messi a disposizione dai comuni, laddove le strutture esistenti non siano in grado di garantirla in loco (anche solo, ad esempio, se hanno i bagni in comune). Tuttavia, riguardo alle preoccupazioni e ai pericoli connessi alla diffusione del virus, non vengono eseguiti tamponi, né alle donne richiedenti, né alle operatrici.

 

Leggendo il comunicato D.i.Re di qualche giorno fa non ci è chiaro se le richieste siano aumentate o diminuite. Ci potresti raccontare, quando, per la tua esperienza, ci si accorge della violenza e si arriva a chiedere aiuto?

 

Le chiamate da parte di donne che si rivolgono al centro per la prima volta sono diminuite (sono meno della metà), mentre sono aumentate quelle da parte di donne già inserite in un percorso di fuoriuscita dalla violenza, ma che magari vivono ancora con il maltrattante, perché magari sono in fase di separazione con figli, senza altri parenti di supporto o in fase di scelta.
Queste donne hanno comunque maggiori strumenti di consapevolezza: un punto fondamentale è infatti il riconoscimento da parte della donna del fatto di trovarsi in una situazione di violenza. La violenza fisica è ovviamente più facile da riconoscere rispetto a quella psicologica. Anche se, solitamente, le richieste di aiuto arrivano solo in situazioni emergenziali, quando la violenza fisica si è spinta avanti ancora di un passo, di un gesto che viene riconosciuto, almeno sul momento, come non accettabile.

 

Cosa temono le donne quando si rivolgono ai centri, oltre alla reazione dell’uomo violento?

Ciò che temono è di lasciare le proprie case, è il dopo, l’indefinito a cui vanno incontro (magari con le/i propri figli/e). In questa fase di virus e crisi economica, la paura è all’ennesima potenza e le richieste di aiuto arrivano da situazioni estremamente pericolose. La situazione si complica ulteriormente se le donne subiscono anche violenza economica.

 

Le donne vengono seguite dai Cav e accolte nelle case-rifugio anche in assenza di denuncia formale?

Sì, le donne che lo richiedono vengono seguite e ospitate anche in assenza di denuncia. E, comunque, anche chi volesse denunciare, ma non si sente di farlo subito, ha a disposizione tre mesi di tempo.
I Cav offrono case-rifugio, consulenza legale, a volte psicologica (dipende dalla politica del Cav in questione), e possono contattare i servizi sociali, se la donna lo chiede. Invece le forze dell’ordine, quando intervengono, li contattano in automatico per attivare l’ospitalità. A Bologna e provincia esiste il PRIS, un servizio sociale di emergenza contro la violenza aperto 24h/24, contattabile solo dalle forze dell’ordine, che ha il compito di trovare una collocazione sicura e lontana dal maltrattante per la donna che chiede aiuto, anche in assenza di denuncia immediata. Poi, in teoria, se le forze dell’ordine intravedono reati, al di là di ciò che esprime la donna, potrebbero procedere, ma figuriamoci quanto questo accada. 

 

Le donne di origine non europea o di classe sociale non benestante incontrano di fatto problemi ulteriori?

Un elemento fondamentale da considerare è che le donne più colpite – e più spesso ospitate nei Cav – sono quelle di classe sociale bassa e/o di origine straniera, mentre le altre è più facile che trovino soluzioni in maniera più autonoma, in quanto possono disporre di denaro e di altri appoggi, a differenza di chi non ha denaro, subisce il ricatto del permesso di soggiorno del marito e/o dello sfruttatore, non parla bene la lingua, non ha amicizie né contatti esterni e, magari, è osteggiata da tutto il resto della famiglia.

 

Ci sono orari per chiamare i numeri antiviolenza? Che differenza c’è tra il 1522 e i diversi numeri dei Cav?

Il 1522 risponde 24h/24 e svolge una funzione di prima accoglienza telefonica su tutto il territorio nazionale. Invita le donne a rivolgersi ai Cav delle città dove vivono o, se si sentono minacciate, a chiamare subito il 112. Tuttavia, da noi, tramite il 1522, è arrivata una sola donna in 3-4 anni.

 

Cosa pensi dei centri per uomini maltrattanti, presenti anche a Bologna, che però intervengono ad orario ridotto e su base volontaria?

Nella mia esperienza ho visto pochi uomini maltrattanti davvero interessati ad intraprendere un percorso su di sé, perché questo implicherebbe avere consapevolezza ed ammettere la violenza agita. Intraprendere dei percorsi può essere utile, ma com’è possibile che questo accada all’interno di un sistema culturale che ancora non crede alle donne o le responsabilizza e di fronte ad un sistema giudiziario che ancora confonde violenza e conflitto? La percezione dell’uomo è che a lui non succede nulla, neanche in presenza di un’ingiunzione da parte del tribunale dei minori. 

 

Cosa pensi riguardo alla possibilità di scegliere l’allontanamento del maltrattante?

La pratica dell’allontanamento del maltrattante è già prevista per legge, ma normalmente non viene applicata in tempi utili a causa del mancato riconoscimento della violenza in atto. Recentemente è stata attuata nella provincia di Trento da parte di un Procuratore che, secondo me, pare conoscere bene la questione: nell’ambiguità tra il conflitto e la violenza, colui che va allontanato è il maltrattante. 

 

Qual è dunque il nodo fondamentale da sciogliere? Perché questo di solito non avviene?

Questo è un punto chiave, perché la legge prevede già la possibilità di allontanare l’uomo, ma di fatto questo non avviene, perché chi opera in questo campo non è adeguatamente formatx alla lettura della violenza; può scambiarla per conflitto o, peggio, normalizzarla.
Purtroppo, talora anche nell’interazione e nel dialogo con la donna, si agisce all’interno di una mentalità patriarcale e paternalista, che tende a giustificare la violenza (“può capitare”), a corresponsabilizzare la donna (“ma tu…?”), e che, di base, mantiene come priorità la volontà di salvaguardare “la famiglia” e/o “il padre”. Ad oggi, non c’è un sistema di risposta alternativo strutturato per affrontare la questione, neanche quando le forze dell’ordine portano via il maltrattante.
I servizi sociali avrebbero potenzialmente più potere rispetto ai Cav perché entrano nelle case. Ma spesso mettono in atto un approccio familistico, per cui la famiglia deve essere salvata a tutti i costi, e così la figura del padre, mentre la donna deve dimostrare di essere “una buona madre”, se non “una brava moglie”.
Tutto ciò accade perché manca nei vari servizi una lettura trasversale e antipatriarcale della violenza e di come agisce, perché non c’è nella nostra cultura e in politica una condanna netta della violenza maschile.

 

In definitiva, come dovrebbe funzionare?

Che smettano di pagarla le donne, che spesso continuano a scontarla di fronte alle forze dell’ordine, ai servizi sociali e ai tribunali. Che di fronte alla denuncia di violenza da parte della donna, sia l’uomo a doversi trovare nell’ostello e a dover dimostrare questo e quello. Insomma,dovremmo costruire un sistema culturale, prima ancora che giudiziario, che davvero riconosca la responsabilità della violenza a chi l’agisce e non a chi la denuncia.

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