Dad: il lavoro ti danneggia

DAD. Il lavoro ti danneggia
La didattica a distanza è stata giustamente definita didattica ad alta distruzione.
Essa  ha comportato  la perdita di alcuni diritti conquistati dalle donne per le donne grazie alle lotte femministe. Anni e anni di battaglie femministe sono stati eliminati da un giorno all’altro.
In Italia, la maggior parte delle insegnanti sono donne, soprattutto nella scuola primaria e dell’infanzia, che oltre a restare chiuse in casa come il resto della popolazione si sono ritrovate a lavorare il doppio rispetto a prima della pandemia. Hanno dovuto in poche settimane imparare un nuovo modo di insegnare. Hanno trascorso giornate intere a formarsi per apprendere nuove tecnologie e mezzi di comunicazione. Le ore svolte per preparare dei lavori didattici, per la formazione forzata, per le video lezioni registrate ed online sono tantissime; le insegnanti affrontano un carico di lavoro superiore a qualsiasi trattativa sindacale.
La ministra Lucia Azzolina ha reso obbligatoria la didattica a distanza con il decreto 22, entrato in vigore il 9 aprile 2020. Si è verificata una tecnologizzazione forzata e improvvisa della relazione didattica, dell’apprendimento e dell’insegnamento. L’obbligatorietà di tutto questo ha peggiorato le diseguaglianze economiche. Servono mezzi tecnologici che spesso non si hanno, serve una padronanza della lingua italiana che la scuola dovrebbe promuovere e non farne un criterio selettivo tra i “bravi” e i “non bravi”. Per quanto riguarda chi lavora, si assiste a un passaggio storico senza precedenti. Il capitalismo finora ha reso direttamente proporzionale il salario con il livello di tecnologizzazione del lavoro. Il lavoro riproduttivo (svolto prevalentemente da donne dentro e fuori casa) è stato sempre a basso livello di tecnologizzazione. Oggi assistiamo ad una tecnologizzazione del lavoro riproduttivo dell’insegnamento senza che ci sia un rispettivo aumento del salario. In questo modo si apre una nuova era di svalutazione del lavoro prevalentemente femminile.
Inoltre, le insegnanti spesso sono mamme e devono anche prendersi cura dei figli, della casa e gestire la didattica a distanza dei propri figli. Il lavoro è enorme. 
Questo rende la donna ancora più schiava anche nella migliore delle situazioni cioè anche senza maschio violento in casa.
Le ore di formazione per imparare un nuovo lavoro dall’oggi al domani devono essere riconosciute e pagate.  Deve essere riconosciuto che stare tantissime ore davanti al computer mette a rischio la salute. Alcune  ricerche mettono in evidenza che la forte luce emanata dai display di computer e smartphone indurrebbero il nostro cervello a rimanere sveglio ritardando l’arrivo del sonno. 
Le  tantissime ore  trascorse davanti ad un computer mettono a rischio la nostra salute.
E’ facile essere vittime di un burn out senza la consapevolezza di esserlo.Il lavoro delle insegnanti è entrato in casa togliendo ogni forma di intimità che va protetta con i denti. Il rischio è di pensare sempre al lavoro.
Le donne madri anche se non insegnanti, spesso lavorano fuori casa e non sanno dove lasciare i figli, devono prendersi cura  di loro spesso 24 ore su 24 e gestire la loro didattica a distanza. La dad rovina le relazioni tra madre e bambine/i in quanto le donne madri super stressate trasmettono il loro stress alle figlie/i che vengono schiacciate completamente dall’obbligatorietà della dad. 
Le donne dall’oggi al domani si sono trovate a compiere diversi ruoli e compiti contemporaneamente: madri, maestre dei loro figli, casalinghe e, spesso sono anche lavoratrici  retribuite(insegnante, dottora, infermiera, operaia) .
Riprendiamoci i nostri diritti e diciamo che non ci va bene insegnare in questo modo. Chiediamo lo sciopero dalla dad e la didattica solo in presenza.
Riprendiamoci la nostra vita, proteggiamo le nostre case dall’invadenza del lavoro, difendiamo la nostra libertà che tante femministe hanno ottenuto con la lotta. 
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Lettera dalla prigioniera politica palestinese Maysa Abu Ghush

Contro ogni forma di carcere. Contro tutti gli stati. Contro ogni forma di occupazione. Contro i nemici sionisti che dal 1948 saccheggiano e devastano i territori palestinesi.
Sempre dalla parte di chi resiste e si ribella anche in condizioni che nemmeno possiamo immaginare. “La Palestina è fuori l’uscio di casa” come diceva chi ha fatto della solidarietà con la popolazione palestinese una scelta di vita resistendo fino all’ultimo istante.

Riceviamo e pubblichiamo la traduzione di una lettera di una detenuta politica nelle carceri del occupazione militare sionista.

Questo è un messaggio della prigioniera politica Maysa Abu Ghush, detenuta nelle carceri dell’occupazione sionista dal 29 agosto scorso:
“Maysa è stata torturata sin dal primo momento del suo arresto, quando l’esercito dell’occupazione ha fatto irruzione nella sua casa perquisendola a fondo, è stata bendata, legata per poi essere trasferita nell’accampamento militare, mentre veniva trascinata a terra la insultavano con le peggiori parolacce.
Hanno continuato a torturarla brutalmente anche dentro, perquisendola a corpo nudo per poi interrogarla ore mentre era legata a una piccola sedia dentro una cella fredda, cercando così di rompere ogni tipo di resistenza alla vita.  L’hanno privata del sonno e di poter andare in bagno, picchiandola e minacciandola in presenza del fratello e della madre per farle pressione.

Come accade nella maggior parte degli interrogatori con le detenute palestinesi, il sistema di investigazione israeliano usa strategie patriarcali per fare pressione sulle donne e le loro famiglie.
Nel caso di Maysa hanno usato informazioni personali durante l’interrogatorio con il padre con l’obiettivo di impaurirla e obbligarla a sottomettersi.

L’interrogatorio con Maysa in queste condizioni è durato 30 giorni prima del suo trasferimento nel carcere di Aldamun. Ora soffre di dolori alla colonna vertebrale, gambe, braccia e mal di testa a causa delle continue torture; nonostante nell’ultima visita in infermeria le abbiano confermato problemi alle ossa, vengono omesse ovviamente le cure mediche.
La negligenza medica si aggiunge all’ennesima forma di violenza e tortura continua che sta subendo durante la sua reclusione.
Il tribunale il 3 maggio ha emesso la sentenza nei suoi confronti di 16 mesi di carcere e una sanzione di 2000 shekel.

Da dentro il carcere Maysa manda un messaggio sull’importanza della solidarietà popolare con tutte le detenute e i detenuti politici.
Le mandiamo un forte saluto per la sua resistenza di fronte alla violenza delle carceri dell’occupazione.
Nessuna terra sarà libera senza la libertà di tutte le detenute e i detenuti politici palestinesi“.

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Pretendiamo che ci sia resa la facoltà di critica!

Riceviamo, traduciamo e pubblichiamo un testo delle compagne tedesche:

Unione femminista contro il Corona-Lockdown: emergenza Corona virus o assistenza di emergenza?

Pretendiamo che ci sia resa la facoltà critica!

Chi attualmente mette in dubbio o addirittura critica le sanzioni statali – anche e proprio in ambienti critici verso la società – viene subito tacciat* di mancanza di solidarietà e accusat* di minare la disciplina della popolazione, la quale è di vitale importanza nel contenimento della pandemia. A cospetto dei morti in Italia ogni obiezione, addirittura ogni domanda si trova subito con le spalle al muro: “Non lo vedi quante persone muoiono!“ Si sa però che non ci sono immagini che parlino per sé. Con le nostre domande non mettiamo in dubbio i morti, ma diciamo che i motivi per cui sono morti non sono evidenti, cioè che non sono contenuti nelle immagini stesse.

Noi ci consideriamo parte del movimento antagonista internazionale femminista e prendiamo la parola, perchè non riusciamo a liberarci dalla sensazione che l’assistenza di emergenza, da anni considerata uno scandalo dal movimento femminista, sia sfuggito e
venga trasformato in qualcos’altro sotto l’etichetta dell’emergenza Coronavirus. Ciò che porta gli ospedali ai loro limiti estremi non è il Coronavirus, ma il modello finanziario neoliberista e l’obbligo al risparmio da anni, che non permette più a strutture come ospedali e case di cura di reagire adeguatamente a picchi di malati, che possono verificarsi anche durante forti epidemie influenzali.

Da anni avanziamo la richiesta che i servizi di emergenza non vengano considerati solo come questione di costi, perché essi sono la base di ogni società. Da anni chiediamo di prendere coscienza del fatto che il settore dell’assistenza è massicciamente
sottofinanziato nella sua struttura e che non è l’economia a sovvenzionarlo, ma all’incontrario, sono le lavoratrici e i lavoratori dell’assistenza mal pagate o non pagate per
niente a sovvenzionare il resto dell’economia. Chiediamo da anni di smettere con le insensate ristrutturazioni nel settore dell’assistenza, le quali cercano di organizzare come
autoproduzione i servizi assistenziali. Pretendiamo che si ponga fine al risparmio fino
all’estremo nei confronti di ospedali, scuole, istituti di cura ed asili d’infanzia – al posto di
una regolamentazione della popolazione dagli effetti altamente dubbiosi, la quale prende a
calci diversi diritti democratici fondamentali. Chiediamo la fine di un servizio d’informazione pubblico che non lascia più spazio ad opinioni divergenti, spargendo nella popolazione paura e panico.

Siamo profondamente preoccupate con quale velocità il pensiero critico sia scomparso dalla sfera pubblica e siamo sbigottite di quanto velocemente ce lo siamo fatte togliere.
Non esiste più una sfera pubblica se tutti i luoghi sono chiusi e le assemblee interdette. Ad
una velocità da perdifiato abbiamo assunto l’atteggiamento che adesso siamo tutt’uno e ogni messa in dubbio dei provvedimenti causi ulteriori morti delle quali poi noi siamo
responsabili. Sembra che ci siamo dimenticat* che siamo responsabili anche se non chiediamo spiegazioni.

Nel frattempo ci sono numerose prese di posizioni di virolog*, mediche e medici e altre
persone del settore che non rientrano nel consenso ufficiale e che mettono in dubbio
l’efficacia delle attuali misure. Noi ci chiediamo perché queste voci contro e critiche
vengano sistematicamente escluse se non addirittura totalmente taciute dai ministri e da
coloro che prendono le decisioni, ma anche dai media pubblici. Noi pretendiamo da tutti i
governi e dall’opinione pubblica di entrare in merito a questa critica!

Dato che attualmente evidentemente la maggioranza delle persone si orienta seguendo le
indicazioni ufficiali, riteniamo sia centrale riassumere i più importanti filoni argomentativi di queste critiche e condividere alcune delle fonti più importanti per poterci fare
autonomamente un quadro della situazione da cittadine e cittadini. Ci è incomprensibile
perché proprio in una situazione di tale gravità noi crediamo che fare ciò da dilettante non
sia possibile.
Ci rende dubbios* che le voci critiche siano mancanti sia nell’informazione ufficiale che nei
processi formativi dell’opinione da parte di coloro che decidono a livello politico. Non può
essere che in una democrazia e in presenza di procedure statali così gravi ed incisive,
coloro che prendono le decisioni politiche non si informino in maniera ampia, cioè plurale.

Noi agiamo, perché temiamo di precipitare in una situazione totalitaria. E questo non si
riferisce solamente alla situazione attuale, perché le decisioni prese adesso hanno i loro
effetti anche nel periodo post-Corona.

Un servizio informativo manipolato:
Cosa dicono i numeri ai quali veniamo giornalmente sottoposti?

L’istituto Robert Koch, che in Germania dà regolarmente informazioni sui più attuali
sviluppi, tiene le sue conferenze stampa davanti ad uno sfondo blu sul quale c’è scritto:
“creare evidenze, condividere sapere – salvaguardare la salute“. Cos’altro dice questo se
non che le evidenze evidentemente non ci sono, ma devono appena essere create? E
proprio questo è quello che fa l’informazione pubblica, propinandoci giornalmente cifre e
immagini di curve che hanno la funzione di rappresentare qualcosa di grave. Ma noi
queste cifre non le possiamo classificare, perché ci mancano i termini di paragone e quindi
non solo ci dicono poco ma sono anche altamente manipolative.

Termini di paragone e di riferimento

Come possiamo noi valutare se 200 morti al giorno sono tante o poche? Affinché una tale
asserzione abbia un senso, dovrebbe essere messa in relazione ad esempio con la
mortalità media al giorno oppure con la quantità di morti al giorno nella stessa stagione
dell’anno prima. Anche la somma delle persone testate e positive a SARS-CoV-2, poi
morte (vedi p.to 2), ha poco senso, se questo numero non viene messo in relazione ad
esempio alla quantità di morti per influenza durante un altro anno oppure alla quantità
media di morti durante lo stesso periodo stagionale, ma di un altro anno (= lasso delle
aspettative statistiche rispetto ai casi di morte). Altrimenti rimane completamente oscuro
se nell’elenco dei morti per Coronavirus presentato dai media si tratti di una parte della
mortalità normale oppure veramente di un fenomeno fuori dal normale. Questa
argomentazione si trova anche in un contributo della bbc del 1° Aprile:
https://www.bbc.com/news/health-51979654

In più questi dati di paragone ci sarebbero: Così ad esempio in Svizzera muoiono ca dalle
1000 alle 2.500 persone all’anno per influenza, dipende dall’aggressività dell’ondata
influenzale. Finora (9 Aprile) in Svizzera sono morte 700-900 persone con esito positivo al
test SARS -CoV-2 (i dati divergono a seconda delle fonti).
Nei sei mesi invernali in Svizzera muoiono ca. 200 persone al giorno (tutte le cause di
decesso). A marzo di quest’anno morirono in un solo giorno al massimo 54 persone
positive al test SARS -CoV-2. A questo proposito è da considerare che finora abbiamo
avuto in Svizzera una stagione influenzale particolarmente leggera. Per sapere se nei casi
di morte messi in relazione al Covid-19 si tratti di un fenomento fuori dalla norma oppure
no, si dovrebbe almeno sapere se accanto ai cosìdetti coronamorti ci sono anche altri
morti per influnza oppure no. I coronamorti sono una parte di quelli che ci si aspetta in un
anno per influenza oppure complessivamente sono veramente aumentate le persone
morte in seguito ad una grave malattia del tratto respiratorio rispetto agli anni scorsi? La
domanda è assolutamente centrale per valutare la situazione.
Questa domanda s’impone particolarmente perché finora rispetto alla cosìdetta
“oltremortalità”, in base alla quale annualmente si fa una stima dei morti per influenza, e in tutti i paesi tranne Italia, Spania, Inghilterra e Olanda la quantità di questi morti è al di sotto dei valori più alti dell’ondata di influenza negli ultimi 5 anni. Ciò significa che la quantità dei morti di quest’anno che vengono messi in relazione con il Covid-19, così come l’intera “oltremortalità” è meno sia rispetto alle cifre assolute che in particolare rispetto alla quantità di morti settimanali per epidemie influenzali particolarmente forti negli ultimi anni.
Così in Germania morirono durante l’ondata influenzale del 2017/18 circa 25.000 persone.
Nel 2016/17 anche l’Italia ebbe un’ondata di influenza particolarmente forte, anche loro
con ca. 25.000 morti. Finora in Italia si sono registrati 17.669 casi di morte messi in
relazione con il Covid-19 (sull’Italia vedi in basso), in Germania 2.280 (al 9 aprile).

Il collettivo pratico berlinese Reiche 121 rimane sulla sua posizione:
https://www.praxiskollektiv.de/aktuelles-zu-covid-19/

“Una questione importante è quindi: il numero di decessi positivi al test Covid19 sono una
normale parte delle morti da segnare come valore medio ed eventualmente aumentate per
motivi stagionali? Sarebbe quindi assolutamente pensabile, che è indubbiamente vero
che un nuovo virus si sia diffuso in modo esponenziale nella popolazione, senza però
influire in maniera rilevante sulla mortalità complessiva. In questo caso i provvedimenti
intrappresi risulterebbero completamente inutili e al posto di avere una funzione preventiva recano un’enorme danno in molti ambiti della nostra vita. Tale questione si discute raramente.”

Sulla “oltremortalità” in Europa fornisce informazioni “Statistik Euromomo” appositamente allestito per il monitoraggio dell’influenza, i dati sugli stati sono elencati singolarmente:
https://www.euromomo.eu/outputs/zscore country total.html

Il network tedesco Medicina Basata sull’Evidenza scrive nella sua posizione sul Covid19:
dov’è l’evidenza?
https://www.ebm-netzwerk.de/de/veroeffentlichungen/nachrichten/covid-19-wo-ist-dieevidenz

“Dalla prospettiva di EbM purtroppo tutti questi dati trovano un utilizzo limitato se come
valore di riferimento manca la mortalità totale della popolazione e il peso totale della
malattia attraverso influenza-like-infections e i loro CFR (Case Fatality Rate)”.

“Il servizio informativo dei media non rispetta (…) in nessun modo i criteri di
comunicazione del rischio basata sull’evidenza da noi richiesti (…). La rappresentazione di
dati al grezzo senza riferimenti ad altre cause di morte porta a sopravalutare il rischio”.

Il Thesenpapier zur Pandemie durch SARS-CoV-2/Covid-19 (tesi sulla pandemia da
SARS-CoV-2/Covid-19), redatta da un team di cura, medicina e diritto fa notare:
https://www.socium.uni-bremen.de/uploads/News/2020/thesenpapier endfassung
200405.pdf

“I dati epidemologici (infezioni segnalate, letalità) messi a disposizione non sono sufficienti a descrivere né il diffondersi, né la modalità di diffusione della pandemia SARS-CoV-2/Covid-19 e quindi solo in maniera limitata possono essere utili a prendere decisioni a lunga durata. (pag. 4)

Così il biofisico Felix Scholkmann, che lavora all’ospedale universitario di Zurigo mette la nostra attenzione sul fatto che l’aumento delle persone positive al test è strettamente correlato all’aumento del numero di test in circolazione, su twitter ha pubblicato delle tabelle che lo provano.
Con altre parole, in proporzione al numero dei test, il numero delle persone positive
rimane costante. A dire il vero, non possiamo pronunciarci sull’aumento dei nuovi infettati, perché non sappiamo quanti erano al inizio delle misurazioni, quando la nostra
disponibilità di test era insufficiente.
Chiediamo perciò, che venga resa pubblica che la “curva” dei nuovi infettati si basa su dati
non chiari e che di conseguenza porta fuori strada.

Sulla carta delle ipotesi sulla pandemia da Sars-Cov-2/covid -19 c’è scritto, e parliamo
della Germania :
“Il numero dei casi giornalmente riportati al Robert Koch Institut è influenzato ampiamente dalla disponibilità e dall’applicazione dei test (…). Tenendo conto di questa (non)strategia dei test, non è intelligente parlare di un tempo cosiddetto “raddoppiato” e di far dipendere da questo dato delle decisioni importanti” (pag.10).

Se il lockdown doveva servire ad “appiattire” la curva, come si usa dire ufficialmente, allora qui sorgono tante domande, soprattutto ci interessa quale conti sono alla basa delle
prognosi che ci mettono tutti in uno stato di paura e terrore e che ci fanno accettare
questo lockdown senza fiatare?
Per poter fare una dichiarazione sulla vera velocità di diffusione del virus si dovrebbe
testare il totale della popolazione di una regione limitata ad intervalli di un tempo regolari.
Questo sarebbe possibile e fattibile . Ma non succede e ci chiediamo perché.

Fonti
I punti menzionati sono semplicemente alcuni aspetti centrali, che abbiamo tirato fuori
dalle argomentazioni dei seguenti virologhe/i, mediche/ci, scienziate/i, infermiere/i e
collettivi :

  • carta sulla pandemia da SARS-CoV-”/Covid-19 del 5 Aprile.
    autrici/tori : Prof.dott.med Matthias Schrappe, universtà Cologna/ Hedwig Francois-Kettler,
    infermiera capa, Berlino / Dott.med.Matthias Gruhl, medico Amburgo/ Brema / Franz
    Knieps, legale( Jurist ) Berlin/ Prof.Dott.phil.Holger Pfaff, universtà Cologna
    Prof.Dott.rer.nat.Gerd Glaeske, unversità di Brema
  • rete tedesca medicina basata sull’evidenza e.v.
  • collettivo mediche, collettivo Reiche 121 e.G., Berlin
    Appello contro il dettato della paura
  • Il Prof.John P.A. Ioannidis del Università di Stanford, uno degli specialisti più importanti nel campo del epidemologia clinica, il 17 marzo nel giornale STAT Reports avverte che le misure del lockdown non sono basate su dati sicuri, che le fanno apparire sensate. Il lockdown stesso causerebbe più danno del virus.
    https://www.statnews.com/2020/03/17/a-fiasco-in-the-making-as-the-coronaviruspandemic-takes-hold-we-are-making-decicions-without-reliable-data/
    In un’intervista entra più in merito:
    https://www.youtube.com/watch?=d6MZy-2fcBw
  • Il prof.dott.Hendrick Streeck, direttore del istituto per virologia e AIDS al Università di
    Bonn critica la mancanza di dati, e non può essere una base sufficiente per le misure da
    prendere. Dopo dei rilevamenti eseguiti a Heinsberg (Germania) e seguiti anche da lui, il suo team trova una letalità da Covid-19 di 0,37 %. Questa è una letalità molto più bassa di quello che si pensava fin’ora.
    A seguire menzioniamo alcuni dei virologi che contraddicono le notizie ufficiali sulla
    pericolosità di Covid-19 e avvertono che le misure ora intrapprese dallo stato non
    influenzeranno oppure influenzeranno negativamente lo sviluppo della pandemia ( il
    pericolo di una seconda ondata più forte) e che ledano la salute della popolazione.
  • Il prof.dott.Sucharit Bhakadi, dell’Università di Magonza, uno degli virologi più importanti della Germania ha spiegato in una lettera aperta alla Signora Merkel, che la situazione dei dati non giustifica i provvedimenti attuali del lockdown. Sopratutto fa delle domande sul rilevamento dei dati che vengono divulgati e scrive quali dati a suo avviso sarebbero importanti per una valutazione reale della situazione.
    https://www.youtube.com/watch?v=VP7a2bkOMo
  • La prof.dott.Ilaria Capua, virologa italiana, in passato scienziata della WHO e direttrice
    del centro One health dell’Università di Florida chiede di trattare con attenzione i dati
    fin’ora rilevati. In particolare sostiene che la situazione nel nord Italia non si possa
    generalizzare, ma che va chiarita a fondo.
    https://www.youtube.com/watch?v=1eynGCzuCwQ
  • La prof.dott.Karin Moelling, virologa , benemerita all’Università di Zurigo mette in guardia da una raffigurazione di SARS-CoV-2 come ” virus assassino”.
  • L’immunologo e tossicologo prof.dott.Stefan Hockertz constata in un intervento alla radio, che Covid-19 ha la stessa pericolosità dell’influenza e che la paura del virus come anche le misure intraprese sarebbero molto più pericolosi.
    https://www.youtube.com/watch?v=7wfb-B0BWmo
  • Nel suo podcast il dott. Carsten Scheller, prof. in virologia all’Università di Würzburg
    paragona Covid-19 per la sua pericolosità al virus influenzale. Qui spiega la sua posizione alle domande di un giornalista.
    https://www.youtube.com/watch?v=w-uub0urNfw
  • Il prof.dott.Pietro Vernazza, dal 1985 direttore sanitario del reparto di malattie infettive all’ospedale di St.Gallen dopo gli studi a Wuhan sopra indicati giunge alla conclusione che la pericolosità dell’epidemia viene fortemente sopravalutata.
    https://infekt.ch/2020/03/neues-verstaendnis-der-covid-19-epidemie
  • Il dott. Wolfgang Wodarg, specialista dei polmoni e scienziato, membro del partito
    democratico e deputato del parlamento per tanti anni, è stato uno dei primi medici ad
    esprimersi pubblicamente contro le misure statali del lockdown, e che ha messo in guardia dal panico.
    https://www.wodarg.com e in un’intervista:
    https://soundcloud.com/radiomuenchen/covid-19-test-testet-alle-corona-viren-dr-wolfgangwodarg
  • In seguito vogliamo richiamare l’attenzione sulla via particolare che sta intraprendendo la Svezia. Euromomo ci dice che fino alla 14cesima settimana si nota addirittura un piccolo calo della mortalità comunque bassa, sebbene la Svezia finora abbia rinunciato al lockdown.
    La Svezia mira all’immunità di popolazione, partendo dai bambini, e protegge solamente i gruppi di persone per le quali un infezione da Covid-19 potrebbe essere mortale.
    A distanza di tempo sarebbe indicato confrontare le varie misure intrapprese dagli stati e le conseguenze ( sulla salute ) che ne sono risultate.
    Non siamo ne scienziate ne virologhe e stiamo lavorando sotto pressione. Perciò potrebbe essere, che in questo capitolo si siano insinuati degli errori nei nostri dati. Abbiamo provato di fare delle ricerche approfondite , ma questo non lo esclude.

La situazione in Italia

Chiediamo un’indagine approfondita sui motivi delle grandi differenze regionali non solo fra i vari paesi ma anche all’interno di essi.
Per la situazione particolare nel Italia del nord, si fanno valere tra l’altro i seguenti motivi :
– Nell’Italia del Nord il tasso di inquinamento dell’aria è alta quasi come a Wuhan e
comunque è il più alto in Europa.
– L’età media della popolazione italiana e molto più alta che nel resto dell’Europa.
– Nel nord Italia ci sono stati 2 grandi catastrofi ambientali : lo scandalo sul amianto e
Seveso.
Le 2 catastrofi hanno portato malattie polmonari con tanti morti e probabilmente anche a
effetti prolungati.
– In Italia vige una grande resistenze agli antibiotici.
– Paragonato a tutta l’Europa in Italia esiste il numero più alto di germi ospedalieri .
– Retrospettivamente sembra anche che si sia ricorsi troppo velocemente all’intubazione
per la paura del contagio.

Del resto rimandiamo alla raccolta approfondita sui motivi che hanno contribuito alla
catastrofe umanitaria in Italia, messa a disposizione dal’ Praxiskollektiv Reiche 21.
https://www.praxiskollektiv.de/aktuelles-zu-covid-19/
paragrafo : “situazione in Italia – apocalissi, triste stato normale combinato col panico di
massa o particolarità regionale ? “

A cosa mirano questi provvedimenti ?

“Per le democrazie europee deve (…) valere l’indiscutibile principio che la struttura
democratica della società non può venir messa contro la salute.”
carta delle (ipo)tesi sulla pandemia da Sars-Cov-2/Covid-19 pag.25

Capiamo che gli stati inizialmente si siano sentiti spinti a reagire tempestivamente a causa
di un pericolo non stimabile. Quello che però si sottrae alla nostra comprensione, è perchè
dopo questa prima reazione ancora oggi non si ascoltano le voci anche di chi esprime dei
dubbi per quanto riguarda l’utilità delle misure prese, e che valuta diversamente la
pericolosità del virus.

Dato che la strategia intrapresa non lascia intravvedere una fine dei provvedimenti ( anche
dopo un allentamento potrebbero essere ripristinati in qualsiasi momento, se si
presentassero altre ondate di malati da covid-19 ) temiamo che misure, che in circostanze
normali sarebbero impensabili per una democrazia, vengano introdotte stabilmente.

Insieme ad Hannah Arendt siamo preoccupati del fatto che i provvedimenti in atto
potrebbero portare a una destabilizzazione dell’intera società. Dalla storia sappiamo che
condizioni del genere possono essere utilizzate per giustificare delle misure che possono
arrivare fino alla restrizione totalitaria dei diritti civili fondamentali.

PERCIÒ CI CHIEDIAMO :

  • perché nell’indagine e nell’applicazione non si spingono sopratutto i test sull’immunità? Non esiste un motivo valido per il quale le persone immuni debbano rimanere chiuse in casa e perché non si realizzino test sull’immunità in grande stile.
  • Perché al personale ospedaliero vengono preventivamente sospese misure importanti di protezione, benché la legge in vigore già prevveda un orario di lavoro molto lungo.
  • La nostra domanda centrale però è : I provvedimenti del lockdown non causeranno
    magari più morti di Covid-19 ?

PERCIÒ PRETENDIAMO :

  • Una statistica sui suicidi che risalgono alle misure prese, sulla violenza sui bambini da
    genitori stressati, sulla violenza contro le donne e specialmente sui femminicidi durante il lockdown.
  • Una statistica su quante persone in seguito ai provvedimenti soffrono la fame perché non hanno un lavoro con un salario garantito, ma lavorano nell’ambito del informatica, hanno un lavoro in nero, o comunque un lavoro precario.
  • Rilevamenti sull’aggravamento delle differenze sociali già esistenti a priori a causa di
    licenziamenti, disoccupazione ecc. Soprattutto per noi è inaccettabile che in seguito ai provvedimenti attualmente in vigore, tutte le frontiere siano chiuse e tutti i paesi si siano ritirati nella propria “nazione”, e di conseguenza la situazione dei profughi nell’Egeo e in tutti campi alle porte d’Europa viene nuovamente e gravemente peggiorata. Non possiamo fare a meno di pensare che questi morti non pesino in modo uguale dei morti in Europa.
    Perciò chiediamo che anche di questi morti venga riferito in primo piano per la pandemia.

Inoltre non possiamo che pensare che queste misure non mirino a proteggere il numero
più alto di persone, ma a qualcos’altro che fin’ora non capiamo.

UN ATTACCO ALLE CONQUISTE DEL MOVIMENTO DELLE DONNE

Con il lockdown tutte le conoscenze e conquiste del movimento delle donne degli ultimi 50
anni vanno a fare in culo / si mandano a sbattere contro un muro. È assurdo presumere
che si possa allo stesso tempo lavorare in homeoffice e curare i bambini. Oltrettutto il la
didattica online richiede ai genitori uno sforzo lavorativo maggiore del solito.
Non capiamo perché le/i tutrici/tori non siano state/i esonerate/i.
Chiediamo che i sindacati si occupino di questa tematica, e che indicano uno sciopero per
tutte le persone dalle quali viene preteso lo smartwork insieme alla cura dei bambini.

In più temiamo che queste misure saranno utilizzate per :
– minare/indebolire a lunga scadenza i diritti del personale infermieristico e di cura, e di far vivere a loro uno stato d’emergenza permanente.
– costringere una larga parte della popolazione ( piccole imprese, lavorat/rici/ori
autonom/e/i, disoccupati etc.) ad indebitarsi e di conseguenza precipitare in una
dipendenza, nella quale non si sarebbero mai messi da soli.
– portare avanti la digitalizzazione della formazione in una dimensione, che in circostanze
normali non sarebbe mai stata accettata.

Iniziativa :
Questa petizione è stata scritta dal collettivo :
Collegamento femminista contro i blocchi mentali – Crisi da Corona o segnale di soccorso dei servizi sanitari ?
Iana, immigrata lavora nella formazione, Zurigo
Judith Klemenc, artista femminista e teorica, Austria
Katja, redattrice e femminsta, Zurigo
Lydia Elmer, Insegnante scuola professionale, Zurigo
Nora de Baan, artista e femminista
Patrizia, insegnante Wen-do e femminista anticapitalista, Zurigo
Susanne, specialista della cura e femmnista anticaptalista, Zurigo
Tove Soiland, teorica femminista e marxista, Zurigo
Firmataria di prima ora : Barbara Duden, storica, Berlin; KirstenVogeler, fisica, Berlin; Iris
Vollenweider, sviluppatrice autonoma di progetti e immobili, femminista, Zurigo; Anna
Hartmann,dott. scienze sociali, Berlin e Wuppertal; Angelika Grubner, psicoterapeuta,
assistente sociale diplomata, studentessa,femminista,Wien e Pitten; Alexandra Grubner,
insegnante scuola superiore e femminista, Wien; Johanna Grubner, sociologa e
femminista, Linz; Barbara Grubner, dott. scienze sociali e femminista, Wien; Bernadette
Grubner, dott. scienze letterarie femminista, Berlin.
…………..

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La repressione è sempre patriarcale

Riceviamo e pubblichiamo:
La repressione è sempre patriarcale
Con questo stato d’emergenza abbiamo vissuto sulla nostra pelle una paternalizzazione dello stato patriarcale. 
In questi mesi ci hanno “educate” all’auto-etero-isolamento, alla rinaturalizzazione del lavoro riproduttivo delle donne, alla razzializzazione classista e allimposizione di un’ulteriore invasione di maschi in divisa per le strade.
Nella nostra quotidianità ci chiediamo se abbiamo più paura del contagio, della repressione o della povertà.
Ci accorgiamo che è in corso una strategia del terrore da parte dello Stato, già prima era in atto sotto il nome di democrazia eurocentrica.
Sappiamo che ogni totalitarismo si basa sulla logica dello shock e su quest’onda non poteva mancare la repressione politica ancora più mirata a colpire qualsiasi tipo di ribellione.
Quando è in corso una nuova disciplina economica, la repressione patriarcale si fa più dura. Le persone colpite dalla repressione sono chi si è opposta/o al controllo, alle galere, cpr e padronato (ultima all’area anarchica bolognese,che è stata colpita in modo particolarmente pesante, contro lo Slai cobas, contro “padroni di merda” a cui hanno dato il divieto di dimora nonostante le misure anti-covid, e contro 42 compagne/i che hanno manifestato contro il G7 a Taormina).
Siamo davanti a una riaffermazione della mascolinizzazione dello Stato. E’ indicativa la condanna alla sorveglianza speciale come soggetto socialmente pericoloso nei confronti della compagna rivoluzionaria Eddi, unica donna colpita in quel processo con una sentenza del genere. Con questa misura lo Stato ha inaugurato la repressione durante la fase 1 del covid.
Per il patriarcato statalista e capitalista la repressione è un mezzo cruciale. Non a caso questa democrazia liberale non ha potuto fare a meno del codice Rocco di epoca fascista, la cui indeterminatezza può lasciare libera interpretazione funzionale allo Stato e alla sbrirraglia del momento. Ad esempio l’art. 419 di questo codice, “devastazione e saccheggio”, toglie legittimità politica a ogni atto volto a distruggere i luoghi che sanciscono i rapporti di proprietà privata, dello Stato e del capitale.
Infatti non c’è fabbrica senza galera e non c’è razzializzazione del lavoro senza cpr. E ogni operazione repressiva è il laboratorio di quella successiva. 
Il 41 bis nasce contro la mafia per poi essere allargata ai movimenti politici. Il 270 bis nasce contro il terrorismo islamista fino ad essere applicato a ogni lotta anti-sistema.
Sta diventando ormai usuale una repressione diffusa e preventiva come quella sancita dall’art. 203 sulla “pericolosità sociale”. Con questo articolo non viene punito il reato ma l’ipotesi arbitraria dello Stato su ciò che il soggetto potrebbe fare. 
Purtroppo questa tecnica di repressione ha colpito di recente Eddi, ma è già stata sperimentata contro molte altre compagne e compagni.
Perché la repressione è sempre patriarcale?
Perché quando colpisce non riafferma soltanto il patriarcato istituzionale ma anche quello informale. Ogni lotta antipatriarcale interna, che sia dentro casa o in contesti politici, viene completamente osteggiata dalla repressione patriarcale di Stato.
 
Il patriarcato informale, similmente a quello di Stato o di qualsiasi padrone, si nasconde nella repressione che, mediante l’utilizzo sessista dell’infamia, promuove delle relazioni umane e politiche patriarcali. 
D’altra parte ogni volta che qualche compagna si ribella alla violenza patriarcale interna, l’emergenza repressiva diventa sempre il pretesto ideale con cui evitare di lavare i propri panni sporchi. 
L’attacco dello Stato, direttamente o indirettamente, fa sempre il gioco patriarcale e riafferma in continuazione delle relazioni sessiste anzichè rivoluzionarie. 
Quando una persona viene arrestata, significa che sarà necessario un lavoro economico e affettivo per sopravviviere alla violenza di Stato. La repressione mostra bene come la mascolinizzazione dello Stato non possa esistere senza la femminilizzazione del lavoro. Che la reclusione riguardi un compagno o una compagna, i colpi repressivi vengono attutiti dal lavoro riproduttivo delle compagne di vita o politiche, dalle madri, sorelle o amiche. 
La repressione è sempre patriarcale perché relega e condanna le donne al lavoro di cura di per sè completamente svalutato e non riconosciuto in termini sociali, politici ed economici. Ciò significa, nel caso del movimento, che siamo davanti al tentativo  di svalorizzazione delle donne come soggette politiche, che ci vorrebbe subalterne rispetto alla lotta. L‘autodeterminazione, però, è più forte.  
Resistere alla repressione significa non cadere nel gioco dello Stato che vuole la nostra lotta sommersa nel patriarcato. 
Non dobbiamo permettere che tutto il lavoro di cura ricada sulle spalle delle compagne. 
La solidarietà va data concretamente senza che ci sia una ripartizione sessista su ciò che è necessario fare ad ogni livello. 
Queste misure repressive fanno soltanto aumentare il nostro odio verso lo Stato patriarcale e capitalista. La repressione patriarcale riproduce solo patriarcato. 
Non possiamo che essere solidali verso chi lotta contro lo Stato, le sue galere, i suoi cpr e i suoi padroni. 
Libertà per tutte e tutti. 
Quelle che odiano tutti i maschi violenti, nessuno escluso
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Rilanciamo lo sciopero delle donne

Riceviamo e pubblichiamo un volantino femminista distribuito durante il presidio a Bologna dell’8 maggio, indetto da alcuni sindacati di base davanti all’assemblea regionale.

Contro ogni padrone

Il patriarcato statale e capitalista ha fatto ricadere questa emergenza sanitaria soprattutto sulle spalle delle donne. Lo Stato ha delegato il suo presunto welfare allo sfruttamento del lavoro riproduttivo delle donne e alla repressione militare. In sintesi ci troviamo davanti a una rimascolinizzazione dello Stato e una femminilizzazione del lavoro. La contraddizione principale del patriarcato capitalista non è solo rispetto al lavoro produttivo, ma soprattutto al lavoro riproduttivo, senza il quale non è possibile l’accumulo di capitale. Il 76% del lavoro riproduttivo salariato (insegnamento, assistenza sociale e sanitaria, ecc..) è svolto da donne. E il lavoro riproduttivo domestico, cioè la manutenzione e cura della vita quotidiana, anche questo è svolto principalmente da donne. La campagna #iorestoacasa è una fucina di sfruttamento e violenza maschile. La società tutta è una fabbrica sociale in cui i rapporti egemonici del capitale si estendono in ogni sfera e in ogni relazione. Questo sfruttamento comincia proprio nelle cucine, nelle camere da letto, nelle case, per poi estendersi nelle scuole, negli ospedali e in ogni ambito. L’obiettivo è produrre forza lavoro da sfruttare, e questa produzione si basa sullo sfruttamento occultato della donna.

Come se non bastasse questo ulteriore colpo per le lavoratrici tutte, tra cui migranti, casalinghe e disoccupate, badanti, precarie, domestiche, braccianti, lavoratrici del sesso, ecc…ci è stato negato lo sciopero dell’8 marzo. E quelle che non si sono piegate al ricatto emergenziale sono state sanzionate (si veda la sanzione della CGS contro lo Slai Cobas di 2500 E). Negare e sanzionare lo sciopero delle donne significa da una parte impedire la rivendicazione economica del nostro lavoro, e si perpetua la svalorizzazione della donna su cui si appoggia il capitalismo. La mancata adesione a questo sciopero da parte di alcuni sindacati di base (di quelli confederali sappiamo già il loro asservimento) è complice della strategia del capitalismo e del suo Stato. Rivendichiamo lo sciopero delle donne che era stato indetto per il 9 marzo 2020, che ha sfidato i padroni, lo Stato e coloro che non hanno appoggiato una lotta così importante. Ancora una volta il coraggio delle donne, con le loro doppie e triple oppressioni, ha vinto. Non sarà una sanzione disciplinare a fermarci.

Il proletariato maschile non sarà effettivamente di rottura finché non riconoscerà le donne come soggetta rivoluzionaria. Se l’obiettivo non è abbattere questo sistema, con il rovesciamento di tutti i rapporti di proprietà, sociali e materiali e la distruzione di tutte le istituzioni che sostengono tali rapporti, allora non è altro che riformismo.

Ogni violenza patriarcale viene agita da un maschio asservito e conformato a questo sistema. Noi faremo guerra ad ogni padrone, che sia in fabbrica, dentro casa o sguinzagliato per le strade.

Vediamo nell’autorganizzazione, nella solidarietà e nella fiducia tra donne l’unica strada verso la nostra liberazione.

Alcune femministe e lesbiche di Bologna

 

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Aspettando i colloqui

Riceviamo e pubblichiamo la traduzione di uno scritto di una compagna che scrive della sua esperienza personale nel carcere femminile di al-Qanater in Egitto.

Non volevo scrivere niente ora. Spesso sono sopraffatta da un miscuglio di emozioni tra la vergogna e il senso di colpa perchè la mia reclusione era sopportabile, rispetto a qualunque persona sia reclusa in questo momento, ma anche rispetto a molte persone durante il periodo della mia reclusione dentro il carcere femminile di al-Qanater del Cairo. Ogni tanto quando racconto dell’esperienza del carcere, sono molto consapevole dei privilegi che avevo e spesso sento di dovermi scusare e c’è una frase che ho ben in mente: “Nonostante fossi reclusa nel miglior carcere in Egitto e la maggior parte delle persone ha un’esperienza peggiore della mia, ma …e inizio a parlare”. Questa mattina sono andata a comprare una cosa, sono arrivata un minuto prima dell’apertura del negozio; i lavoratori nel negozio dopo un’attesa di 10 minuti (che per me è tanto) mi hanno detto che dovevo attendere mezz’ora perchè non trovavano le chiavi.

Da qualche anno mi arrabbio molto facilmente e mi innervosisco molto quando i miei piani saltano (poi è arrivata la pandemia a dirci che niente al mondo seguirà un piano).
La cosa strana è che proprio nel momento in cui stavo per arrabbiarmi, all’improvviso mi sono ricordata del carcere. Mentre ero in attesa, mi sono rivista quando indossavo la galabeya, (la tunica bianca che tutte le detenute sono obbligate a indossare), per andare al colloquio aspettavo che Umm Yehya la secondina, aprisse la cella per vedere le persone care.
Il giorno del colloquio è il giorno più importante della settimana, non solo per chi riceve la visita, ma per tutta la sessione, anche se chi ha ricevuto il colloquio è rientrato in cella triste. Dopo il colloquio sei piena di racconti sia felici che tristi. Notizie, discussioni e a seconda di chi visita, ricevi cibo cucinato, surgelato o altro.
Il colloquio è al centro della detenzione, ma anche il modo con cui si scandisce il tempo per passare la reclusione.

Mi ricordo di una discussione fatta con un’amica dentro: io volevo che emettessero la sentenza per sapere quanto tempo saremmo rimaste dentro (odio l’attesa in generale), mentre lei voleva che rimanessimo sotto processo, così avremmo continuato ad avere un colloquio a settimana.  Chi ha ricevuto sentenza ha diritto alle visite ogni 15 giorni e chi è nella sessione delle persone condannate a morte solo una volta al mese, anche se per legge dovrebbero ricevere visite ogni 15 giorni come le altre persone processate. Dopo la sentenza di 3 anni di reclusione per il nostro processo, ci chiedevamo se avremmo dimenticato le “persone fuori” in quanto la nostra permanenza sembrava lunga (ai tempi eravamo ingenue, spaventate e tre anni sembravano veramente tanto tempo).
Ci chiedevamo se i nostri amici si sarebbero stufati o se ci avrebbero dimenticate e come ci saremmo abituate alle visite ogni 15 giorni dopo che le ricevevamo ogni settimana. Dovevamo forse fare come altre donne all’interno del carcere che dicevano ai familiari di visitarle una volta al mese? Era un modo per non sovracaricare le proprie famiglie e per far passare il tempo in fretta. La misura del tempo dentro il carcere è scandita dai colloqui.
Quante visite ci sono dopo che è stata emessa la sentenza? Quanto tempo e energie vengono disperse per ogni visita dalle nostre famiglie? E quante sono le spese per ogni visita? Per fortuna non abbiamo deciso di diminuire le visite.
Al tempo litigavamo con la direzione carceraria sulla durata dei colloqui su quello che ci facevano entrare o proibivano.

Non riesco ad immaginare se fossi stata in carcere e i colloqui fossero stati bloccati cosa mi sarebbe successo. Come avrei reagito alla preoccupazione per la mia famiglia e i miei amici? Di sicuro le giornate sarebbero state tutte uguali e avrei perso il senso di differenziazione tra giorni, settimane e mesi. Cosa avrebbe provocato al mio stato mentale? Tutte le ipotesi sono un incubo. Il carcere è un incubo. Il carcere senza colloquio è un incubo peggiore.
E il carcere senza il sostegno di famiglia e amici appesentisce il cuore e aumenta all’isolamento il senso di solitudine. Tutti i saluti da fuori e tutto quello che si diceva sul nostro processo venivamo a saperlo. Perfino le persone che non riuscivano a chiedere direttamente di me, sapevo che lo facevano chiedendo come stesse la mia famiglia. E questo faceva la differenza.
So molto bene che avere una persona che conosci in carcere ferma la vita a chi invece è fuori. Emotivamente c’è un miscuglio di sentimenti tra paura e la possibilità di fare la stessa fine e spesso vieni colpito dal senso di inadeguatezza che ti blocca completamente. Il carcere ora non è come nel 2014: i colloqui sono vietati, gli alimenti sono vietati e non c’è la possibilità di ricevere e spedire la posta. Mi chiedo come si può alleggerire il senso di isolamento delle persone dentro o come la solitudine si possa alleviare. Come?

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Narrativa borghese occidentale a braccetto con quella serva dello stato (in questo caso peruviano)

 

A sinistra della foto, terra occupata dalle persone povere (Villa Hermosa) e a destra la parte invasa dai ricchi (Las Casuarinas)

Il 14 aprile è uscito su internazionale l’articolo: Nelle baraccopoli di Lima la fame uccide prima del virus, pubblicato sul sito di una radio serva dello stato peruviano (Radio Programas del Perú).

Qua l’articolo:                                                                                                       https://www.internazionale.it/notizie/andrea-closa/2020/04/14/baraccopoli-lima-virus

Vorrei prima di tutto mettere in evidenza, che questa radio viene sponsorizzata da Intercorp, azienda che controlla l’abuso edilizio per la gentrificazione, catene di farmacie, scuole e università private, banche, assicurazioni sanitarie, ecc.

L’articolo, un ammasso di parole con l’unico obiettivo cattolico di svegliare nelle persone che leggono,  compassione e carità. Questi sentimenti passivi dimostrano la solita collaborazione tra la narrazione istituzionale peruviana e quella occidentale che vede la popolazione del sud del mondo, incapace di autogestirsi e completamente priva di strumenti per sopravvivere.

A chi ha letto e ha provato questi sentimenti, vorrei solo dirvi che le persone povere menzionate nell’articolo, non si sono trovate povere per caso, è stato il sistema neoliberista che le ha ridotto in quella condizione, espropriandoli dalle loro terre e spingendoli brutalmente verso la capitale, Lima, proibitiva da tutti punti di vista.

Ma la dignità e la solidarietà sono tra le cose che lo stato non è riuscito a rubare. Queste persone una volta arrivate a Lima decisero di restituire il colpo, togliendo territorio allo stato come segno di vendetta, occupando in massa estesi territori. Lo fecero i miei nonni materni, mai conosciuti, 25 anni prima della mia nascita. Questa collettività autorganizzata ha tirato su dal nulla quartieri che hanno accolto la generazione di mia madre e tutte quelle successive. Le donne sin dall’inizio si sono organizzate con le altre vicine creando la casa de las vecinas per difendersi dai mariti violenti denunciandoli pubblicamente e andandoli a cercare sotto casa, hanno creato el vaso de leche, che durante la dittatura fujimorista ha garantito, alla mia generazione, la colazione con un bicchiere di latte e 5 biscotti fatti con farina e acqua, la olla común che consisteva nel mettere il poco cibo che avevano a disposizione per condividerlo e così nessuna/o rimaneva senza mangiare, pratica che continua ad essere utilizzata anche ora in tempi di pandemia.                                                                                                                                       Anche il telefono veniva collettivizzato e non so ancora come abbiamo fatto visto che c’era un telefono ogni 3 isolati!                                                                                                                                                                   Da un punto di vista di classe, le idee e gli obiettivi erano chiari mentre da un punto di vista di genere, era una guerra costante. Il patriarcato era ovunque in casa e in quartiere ma la forza e il coraggio delle donne del mio barrio, continuano ad ispirarmi profondamente.
Essere solidali era un gesto naturale e la consapevolezza di classe ha accolto con ottimismo il gruppo guerrigliero sendero luminoso e le sue idee.

Naturalmente nell’articolo pubblicato su internazionale non c’è una parola, né sul passato resistente né tanto meno sul presente con l’ennesima ondata repressiva orchestrata dallo stato peruviano, questa volta in nome dell'”emergenza sanitaria”, non una parola sull’attacco mirato dei militari soprattutto sulle donne, molestate, perquisite e portate in caserma da questa banda di stupratori in divisa. Non una parola sulla violenza che stanno utilizzando contro le venditrici e venditori ambulanti.

Le persone povere, non hanno bisogno di briciole infarinate di carità, sanno perfettamente come autodeterminarsi e autorganizzarsi. La povertà è un orrore ma i nostri cuori non si sono induriti fino al punto di non sapere chi sono i responsabili della nostra condizione, è a loro che punta la nostra rabbia perché l’eliminazione della povertà , della violenza contro le donne e altre soggettività, del razzismo, avverrà solo distruggendo questo stato capitalista e patriarcale.

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Contro la violenza sulle donne – appunti da una chiacchierata con un’operatrice di un CAV

Ciao, ci diresti, in due parole, di cosa ti occupi?

Ciao! Lavoro come responsabile di un centro antiviolenza. I centri antiviolenza sono luoghi radicati sul territorio che lavorano con le donne sia nelle azioni operative (ascolto, colloqui con i servizi sociali, accompagnamenti alle forze dell’ordine per denuncia, accoglienza nelle case rifugio, etc), ma sono anche luoghi, o almeno dovrebbero, dove fare politica con e tra donne. Ricordiamoci che i centri antiviolenza nascono dal movimento femminista. Sono state le femministe a rompere il silenzio, a dire che la violenza non è il nostro destino in quanto donne. Da sempre sono le femministe a prendersi la responsabilità politica della violenza maschile sulle donne, a nominarla e smascherarla in quanto prodotto strutturale del nostro sistema culturale e sociale.

 

Partiamo da una questione cruciale: nel periodo attuale le donne che lo richiedono, hanno modo di essere accolte? Ci sono normative particolari o maggiori complicazioni rispetto al solito?

Le case rifugio sono aperte e ci sono nuovi inserimenti. È però imposta una quarantena di 15gg, che si svolge presso altri luoghi messi a disposizione dai comuni, laddove le strutture esistenti non siano in grado di garantirla in loco (anche solo, ad esempio, se hanno i bagni in comune). Tuttavia, riguardo alle preoccupazioni e ai pericoli connessi alla diffusione del virus, non vengono eseguiti tamponi, né alle donne richiedenti, né alle operatrici.

 

Leggendo il comunicato D.i.Re di qualche giorno fa non ci è chiaro se le richieste siano aumentate o diminuite. Ci potresti raccontare, quando, per la tua esperienza, ci si accorge della violenza e si arriva a chiedere aiuto?

 

Le chiamate da parte di donne che si rivolgono al centro per la prima volta sono diminuite (sono meno della metà), mentre sono aumentate quelle da parte di donne già inserite in un percorso di fuoriuscita dalla violenza, ma che magari vivono ancora con il maltrattante, perché magari sono in fase di separazione con figli, senza altri parenti di supporto o in fase di scelta.
Queste donne hanno comunque maggiori strumenti di consapevolezza: un punto fondamentale è infatti il riconoscimento da parte della donna del fatto di trovarsi in una situazione di violenza. La violenza fisica è ovviamente più facile da riconoscere rispetto a quella psicologica. Anche se, solitamente, le richieste di aiuto arrivano solo in situazioni emergenziali, quando la violenza fisica si è spinta avanti ancora di un passo, di un gesto che viene riconosciuto, almeno sul momento, come non accettabile.

 

Cosa temono le donne quando si rivolgono ai centri, oltre alla reazione dell’uomo violento?

Ciò che temono è di lasciare le proprie case, è il dopo, l’indefinito a cui vanno incontro (magari con le/i propri figli/e). In questa fase di virus e crisi economica, la paura è all’ennesima potenza e le richieste di aiuto arrivano da situazioni estremamente pericolose. La situazione si complica ulteriormente se le donne subiscono anche violenza economica.

 

Le donne vengono seguite dai Cav e accolte nelle case-rifugio anche in assenza di denuncia formale?

Sì, le donne che lo richiedono vengono seguite e ospitate anche in assenza di denuncia. E, comunque, anche chi volesse denunciare, ma non si sente di farlo subito, ha a disposizione tre mesi di tempo.
I Cav offrono case-rifugio, consulenza legale, a volte psicologica (dipende dalla politica del Cav in questione), e possono contattare i servizi sociali, se la donna lo chiede. Invece le forze dell’ordine, quando intervengono, li contattano in automatico per attivare l’ospitalità. A Bologna e provincia esiste il PRIS, un servizio sociale di emergenza contro la violenza aperto 24h/24, contattabile solo dalle forze dell’ordine, che ha il compito di trovare una collocazione sicura e lontana dal maltrattante per la donna che chiede aiuto, anche in assenza di denuncia immediata. Poi, in teoria, se le forze dell’ordine intravedono reati, al di là di ciò che esprime la donna, potrebbero procedere, ma figuriamoci quanto questo accada. 

 

Le donne di origine non europea o di classe sociale non benestante incontrano di fatto problemi ulteriori?

Un elemento fondamentale da considerare è che le donne più colpite – e più spesso ospitate nei Cav – sono quelle di classe sociale bassa e/o di origine straniera, mentre le altre è più facile che trovino soluzioni in maniera più autonoma, in quanto possono disporre di denaro e di altri appoggi, a differenza di chi non ha denaro, subisce il ricatto del permesso di soggiorno del marito e/o dello sfruttatore, non parla bene la lingua, non ha amicizie né contatti esterni e, magari, è osteggiata da tutto il resto della famiglia.

 

Ci sono orari per chiamare i numeri antiviolenza? Che differenza c’è tra il 1522 e i diversi numeri dei Cav?

Il 1522 risponde 24h/24 e svolge una funzione di prima accoglienza telefonica su tutto il territorio nazionale. Invita le donne a rivolgersi ai Cav delle città dove vivono o, se si sentono minacciate, a chiamare subito il 112. Tuttavia, da noi, tramite il 1522, è arrivata una sola donna in 3-4 anni.

 

Cosa pensi dei centri per uomini maltrattanti, presenti anche a Bologna, che però intervengono ad orario ridotto e su base volontaria?

Nella mia esperienza ho visto pochi uomini maltrattanti davvero interessati ad intraprendere un percorso su di sé, perché questo implicherebbe avere consapevolezza ed ammettere la violenza agita. Intraprendere dei percorsi può essere utile, ma com’è possibile che questo accada all’interno di un sistema culturale che ancora non crede alle donne o le responsabilizza e di fronte ad un sistema giudiziario che ancora confonde violenza e conflitto? La percezione dell’uomo è che a lui non succede nulla, neanche in presenza di un’ingiunzione da parte del tribunale dei minori. 

 

Cosa pensi riguardo alla possibilità di scegliere l’allontanamento del maltrattante?

La pratica dell’allontanamento del maltrattante è già prevista per legge, ma normalmente non viene applicata in tempi utili a causa del mancato riconoscimento della violenza in atto. Recentemente è stata attuata nella provincia di Trento da parte di un Procuratore che, secondo me, pare conoscere bene la questione: nell’ambiguità tra il conflitto e la violenza, colui che va allontanato è il maltrattante. 

 

Qual è dunque il nodo fondamentale da sciogliere? Perché questo di solito non avviene?

Questo è un punto chiave, perché la legge prevede già la possibilità di allontanare l’uomo, ma di fatto questo non avviene, perché chi opera in questo campo non è adeguatamente formatx alla lettura della violenza; può scambiarla per conflitto o, peggio, normalizzarla.
Purtroppo, talora anche nell’interazione e nel dialogo con la donna, si agisce all’interno di una mentalità patriarcale e paternalista, che tende a giustificare la violenza (“può capitare”), a corresponsabilizzare la donna (“ma tu…?”), e che, di base, mantiene come priorità la volontà di salvaguardare “la famiglia” e/o “il padre”. Ad oggi, non c’è un sistema di risposta alternativo strutturato per affrontare la questione, neanche quando le forze dell’ordine portano via il maltrattante.
I servizi sociali avrebbero potenzialmente più potere rispetto ai Cav perché entrano nelle case. Ma spesso mettono in atto un approccio familistico, per cui la famiglia deve essere salvata a tutti i costi, e così la figura del padre, mentre la donna deve dimostrare di essere “una buona madre”, se non “una brava moglie”.
Tutto ciò accade perché manca nei vari servizi una lettura trasversale e antipatriarcale della violenza e di come agisce, perché non c’è nella nostra cultura e in politica una condanna netta della violenza maschile.

 

In definitiva, come dovrebbe funzionare?

Che smettano di pagarla le donne, che spesso continuano a scontarla di fronte alle forze dell’ordine, ai servizi sociali e ai tribunali. Che di fronte alla denuncia di violenza da parte della donna, sia l’uomo a doversi trovare nell’ostello e a dover dimostrare questo e quello. Insomma,dovremmo costruire un sistema culturale, prima ancora che giudiziario, che davvero riconosca la responsabilità della violenza a chi l’agisce e non a chi la denuncia.

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Perù: grilletto facile in tempi di coronavirus

A inizio aprile, il presidente Martín Vizcarra, non bastandogli di imporre la quarentena obbligatoria a tutta la popolazione, il coprifuoco dalle 20 alle 5 ed in alcune città addirittura dalle 17, il riversamento totale dell’esercito nelle strade che ha già provocato la morte o sparizione delle persone senza fissa dimora o dei venditori e venditrici ambulanti, ha promulgato una legge che dà completa impunità a esercito e polizia mentre pattugliano le strade per far “rispettare” le misure imposte. 

Questa legge che era già stata disegnata nel luglio 2019 per il rimasuglio fujimorista e ora viene approvata “come contrasto del virus”, con la modifica di 2 articoli in cui esime da ogni responsabilità militari e polizia, in caso che durante lo svolgimento della loro “funzione di sicurezza” provochino lesioni o morte di una persona e garantisce che non ci saranno dei provvedimenti nei confronti dei suoi assassini verde cachi. Stiamo parlando di 50 mila militari in tutto il territorio peruviano a cui si aggiunge anche la sbirraglia.

Così il patriarcato istituzionalizzato attiva il suo braccio armato (di stupratori e assassini) dandogli in mano una licenza per uccidere o molestare le donne che vengono portate in caserma, con la miserabile scusa che tutto ciò è necessario per “proteggere la salute della popolazione”. Addirittura ci sono video di propaganda dello stato che fanno vedere l’abuso di potere mostrando come tengono ferme le persone a terra mettendo il loro schifoso stivale sopra il collo.

Tutto questo per dire che queste misure non hanno niente a che fare con la pandemia. Lo stato non si è mai interessato al benessere e la libertà delle persone colpendo scandalosamente le donne e le persone più povere.
Le crisi però oltre a portare repressione e ulteriore precarietà delle classi oppresse, portano anche altre due possibilità: la sottomissione o l’azione.


I quartieri più poveri di Lima hanno scelto la seconda opzione: sfidando coraggiosamente le misure dittattoriali aprendo le loro umili case per accogliere i senza fissa dimora o le persone sconosciute che non sarebbero state in grado di arrivare in tempo verso le proprie abitazioni prima del coprifuoco.


Hanno scelto collettivamente di autorganizzarsi per vie, come hanno sempre fatto in momenti di difficoltà, mettendo a disposizione le riserve di cibo (molto ridotte visto che hanno chiuso i mercati contadini e i supermercati più vicini, in alcuni casi, distano a 45 minuti) e per fare quello che viene chiamata: la olla común, cioè una pentola per tutte e tutti.


È lo stato capitalista e patriarcale che ci deve dire cos’è la salute?
Non credo proprio…donne autorganizziamoci!

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Io resto a casa? Anche no!

È di fatto estremamente difficile per una donna, in questo momento di emergenza sanitaria, telefonare o uscire di casa per denunciare il proprio aggressore e scappare dalla violenza domestica quotidiana, acutizzata dall’obbligo di isolamento, dalla sorveglianza nelle strade e dall’incertezza economica.
Anche se alla tv dicono che è possibile, nei fatti l’aggressore non si allontana mai; tutti gli spazi al di fuori della casa, a eccezione del supermercato, sono chiusi, la libertà di movimento è negata.
Il sostegno economico è una chimera, come allontanarsi, se non hai un reddito che ti rende autonoma?
Le nuove richieste d’aiuto ai centri antiviolenza per donne sono diminuite drasticamente, meno della metà del periodo pre covid-19.
Accogliere nuove donne nelle case rifugio spesso presenta delle difficoltà, come l’obbligo di quarantena per 15 giorni in una struttura separata.

L’attuale sistema di contrasto alla violenza sulle donne si rivolge alle donne, non agli uomini che la agiscono, per i quali la violenza non è mai un’urgenza e possono restarsene dove sono, invece di esser loro a lasciare la loro casa e le loro cose.
I centri senza-violenza per maschi violenti, la cui partecipazione è facoltativa, oltre a continuare gli incontri in video chiamata, non mettono a disposizione rifugi per allontanare il maschio violento.
Oggi è chiaramente necessario al patriarcato capitalista che il vissuto della donna resti sommerso.
In questo momento d’emergenza devono rimanere sommerse le condizioni di lavoro riproduttivo capitalizzato (assistenza, pulizie, insegnamento, ecc…), svolto in netta prevalenza da donne. Deve essere sommerso il lavoro riproduttivo domestico che (nella migliore delle ipotesi…) si accavalla a quello capitalizzato, magari svolto da casa, in qualche fabbrica-focolaio, nelle Rsa, negli ospedali, nei supermercati. E se ci sono figli/e o parenti che necessitano di particolare cura e assistenza o se è una donna a star male, la situazione si fa davvero dura.
Oggi più che mai non c’è spazio né tempo per voler vedere l’oppressione doppia e tripla della violenza maschile sulle donne.

Questo vale sia per le donne che in questo momento sono recluse in qualche luogo di detenzione, sia per le donne che non hanno una casa, sia per quelle per cui la casa è il luogo di lavoro e il poter uscire a fare una passeggiata l’unico momento di stacco, sia per quelle che sono rinchiuse dentro la “sicurezza” di una casa.
Lo stato liberale, il cui dio è il capitale, mostra il suo volto paternalistico e patriarcale e impone un programma di salute pubblica sulla pelle delle persone recluse, di chi non ha capitali e sulle donne.
La repressione è forte. Le strade sono piene di sbirraglia di maschi armati e machisti che ci ricordano che la violenza maschile è strutturale allo Stato.
La strada, che già prima non era uno spazio sicuro per noi, ora lo è ancora meno. Conosciamo bene questa sensazione, sentirci minacciate e all’erta, sentirci come se dovessimo farci piccole piccole per passare inosservate, rapide, come se non ci fosse del tutto lecito attraversare quello spazio, nè di notte nè di giorno.

Ora questa sensazione, che influenza i nostri pensieri e i nostri corpi, è amplificata dalla presenza delle forze dell’ordine, dalla presenza prevalente di uomini fuori casa, dall’assenza di persone per i vicoli deserti che attraversiamo, da sole.
Ci guardiamo attorno e non troviamo nessuno che ci faccia sentire confortate; sappiamo che se grideremo e correremo dietro l’angolo forse nessuno verrà in nostro soccorso.
Se cerchiamo uno sguardo in una passante, uno scambio di sorrisi che ci facciano sentire di nuovo coraggiose e capaci di proseguire, non li troviamo: le altre donne camminano a distanza, hanno paura, si tengono distanti, gli sguardi bassi. Se qualcuno ci guarda, se si tratta di uomini non sono certo sguardi di solidarietà, ma piuttosto di desiderio e possessione; le donne che ci hanno rivolto la parola a volte lo hanno fatto con ostilità e disapprovazione, inducendoci a tornare a casa, e questo è stato a dir poco sconfortante.
Ci manca il confronto tra di noi per poter reagire e poter capire come farlo, con quali parole e con quali gesti.
L’indifferenza verso ciò che viviamo e verso l’isolamento che sentiamo è diventata onnipresente e soffocante. Non siamo più sicure nelle nostre case, nè meno sole; e non siamo più sicure fuori, nè meno sole. Il confine tra il dentro e il furoi casa è un’altra di quelle frontiere fittizie che marca lo stato e che fa diventare maledettamente reali, segnando i contorni delle vite di chi subisce maggiormente le violenze del sistema. La retorica militaristica con cui i media parlano del virus amplifica queste percezioni e contribuisce a far apparire come necessarie le misure prese dal governo e la mobilitazione massiccia della repressione e della sorveglianza.

Siamo in guerra, il virus è da combattere, non ci sono altre vie percorribili.
Lo stato ci proibisce di far sentire la nostra voce, di esprimere le nostre idee su come si potrebbe affrontare la situazione. Non ci stupisce: lo stato è un dominio maschile, i politici, gli esperti, i poliziotti, sono tutti uomini. La maggioranza di donne che lavora negli ospedali,  nei centri di assistenza, nelle case, sono invisibili, impercettibili, chirurgicamente rimosse dal discorso mediatico.
Sono uomini quelli che ci dicono come dobbiamo comportarci, cosa dobbiamo fare, come dobbiamo sentirci, come dobbiamo reagire.
Ci tolgono ogni forza; ci si rivolgono come padri autorevoli che vogliono mostrarsi gentili, a patto che tu stia alle loro regole. Non vogliono essere contraddetti. Ci fanno sentire impotenti, incapaci di fare qualcosa. Dettano quelle che sono le nostre necessità: dove comprare, che cosa, e cosa la nazione deve produrre ed esportare. Di prima necessità è la fabbricazione di armi, perchè le vite che contano si contano sulle dita di una mano, mentre quelle di altre donne muoiono a distanza da noi sotto alle bombe e alle macchine di morte che esportiamo.

Questa produzione, la sbirraglia, i discorsi militaristici, il paternalismo dello stato, le misure fatte applicare, l’invisibilizzazione dello sfruttamento femminile e della violenza maschile, troviamo che siano tutte conferme del fatto che lo stato, la cultura della guerra e della violenza maschile sono tra loro strettamente legate.
Ci vogliono costringere a stare a casa, nascoste, silenziose, non ci si deve vedere e non ci si deve incontrare. Lo Stato si rivolge a un “noi” con cui non possiamo riconoscerci.
Lo stato si regge sulla famiglia, sul privato del sesso e della proprietà, sulla sottomissione e sfruttamento del lavoro riproduttivo delle donne (sesso, procreazione, cura dei corpi, della casa e degli affetti) e sulla linea del colore. Imporre di restare a casa significa scegliere di scaricare l’emergenza sanitaria, la recessione e l’eventuale (non auspicabile) ripresa capitalista sulla pelle delle donne.
Risulta chiaro anche da altri aspetti come lo Stato è prima di tutto violenza sulle donne. Se un marito geloso vuole sua moglie chiusa in casa, ora lo Stato lo accontenta ponendo tutte le condizioni adatte.
La cultura dello stupro è ancora vigente e strutturale; se lo stupro coniugale era invisibile, ora è indicibile.
Se la frustrazione maschile si trasforma spesso in violenza sulle donne, sappiamo che la frustrazione in questo momento è altissima.

E se abortire prima era difficile, ora è praticamente impossibile. Molti ospedali hanno smesso di praticare l’IVG, i consultori hanno ridotto gli orari di lavoro, decidere con chi condividere la scelta di abortire in un momento in cui le nostre relazioni sociali sono forzate o negate è spesso impossibile.
A causa di questa emergenza sanitaria inoltre si è accelerato il disegno economico-politico di digitalizzare le nostre vite. Questo, in un sistema patriarcale e tecno-capitalistico, significa che la violenza maschile sulle donne non solo si perpetua sul piano materiale, ma anche in quello virtuale.
Basta pensare a siti e gruppi come Revenge Porn per ricordarci come tutta la nostra civiltà tecno-capitalistica sia basata sulla cultura dello stupro e su come questa cultura sia necessaria all’accumulo di capitale.

Di queste questioni la propaganda di regime non parla e, se lo fa, ne parla in termini in cui la donna è vittima e non una persona che possa autodeterminarsi, né ora né mai.In questo momento è illegale continuare a trovarci per stare insieme, allenarci, sostenerci, autogestirci la quarantena.
Se già in tempi di presunta “normalità” sentivamo la nostra autonomia minacciata e ostacolata, ora, in continuità tra un  “prima” e un “dopo” – una retorica che serve a invisibilizzare ulterioremente lo sfruttamento e la violenza patriarcali – ci sentiamo ancor più colpite da misure che ci privano della responsabilita’ individuale e collettiva sulle nostre stesse vite e dalla loro criminalizzazione.
E’ illegale correre in aiuto di un’amica, parente, vicina. E’ illegale la solidarieta’, ora piu’ che mai.
Se al patriarcato capitalista è necessario che il vissuto delle donne resti sommerso, allora è necessario far emergere il sommerso, che significa alterare e mettere in crisi l’equilibrio psicologico maschile basato sulla sottomissione delle donne. Significa rendere evidente e mettere in crisi l’alienazione del patriarcato, del capitale e del suo stato che, con le logiche del mercato e della devastazione ambientale, ci ha portato a ciò che viviamo ora. Significa mettere in discussione ciò che la “giustizia” maschile ha naturalizzato e tracciare sentieri di possibilità di liberazione totale.

Se tutto ciò di cui abbiamo parlato era già presente prima dell’inizio della quarantena, ora è peggiorato e si è reso nettamente esplicito. Ci è stato tolto troppo: vogliamo riprendercelo. Ribellarci significa sopravvivere, trovare nuove strategie per reagire, per incontrarci, per rafforzarci, per cercare riferimenti tra di noi e non altrove, dove non è possibile trovarli, per amarci, per prenderci cura.
Con la solidarietà femminista questi sentieri possiamo percorrerli.
Ogni cuore è una bomba a orologeria.

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